giovedì 21 febbraio 2013

Guerra e riposo del guerriero

     Nel bel mezzo di giornate di lavoro intenso, intensissimo, e di trattative defatiganti, ci si accorge di quanto sia grave la malattia morale che affligge questo Paese: i comportamenti e la deontologia individuale sono a livelli incredibili, talmente deplorevoli che riesce perfino difficile raccontarli e, nel farlo, riesce difficile persino farsi credere, tanto le storie che narriamo risultano assurde. Assurde, forse, ma assolutamente vere.
      Accade così che, pur disponendo la mia società di un negoziatore esperto, collaudato e validissimo, a un certo punto, quando la situazione diventa polemogena, devo necessariamente scendere in campo io.
      Non so perché, ma, fin da bambino, la guerra e i conflittti - oltre che la mia passione - sono anche il mio destino. Quando tutte le mediazioni sono saltate, quando ogni compromesso è impossibile, è il mio momento, tocca a me. Quando c'è da guardare l'avversario negli occhi, e mostrargli i denti, è il mio turno.
       Non crediate che sia un bel ruolo, un ruolo invidiabile. E' un ruolo difficile e scomodo. Per prima cosa, mi prendo palate di guano. Finiscono tutte addosso a me, e questo accade perché io non negozio, io colpisco, picchio. Sono colui che opera il salto di qualità, dalla fase potenzialmente polemogena a quella polemica tout court.
       Nessuno, a quel punto, sta a guardare di chi siano le colpe pregresse, chi ci abbia portato a una situazione siffatta. Quello che conta è solo che io ora picchio (metaforicamente, of course), e tutti se la prendono con me. Divento l'uomo più odiato, quello che, nel momento in cui, grazie al mio intervento manu militari, qualche filo di trattativa si riallaccia, deve essere escluso dal tavolo del negoziato, "perché con chi picchia non si dialoga".
       Ho interpretato tutta la vita questo ruolo e, se non mi chiedessero espressamente di svolgerlo, non lo interpeterei più. Il gioco non vale la candela, le critiche sono veementi, le ostilità si appuntano su di me, e io non ne ritraggo alcun vantaggio.
       Mi è sempre capitata questa vita, vorrei sottrarmene, ma non mi riesce, un po' perché io sono davvero così, un po' perché sono gli altri a chiedermi di interpretare questo ruolo, sapendo che non lo svolgo male; un po' perché, man mano che invecchio, mi trovo dolorosamente a constatare che è l'unico modo che mi è rimasto di interfacciarmi con gli altri. Di conseguenza fioccano le accuse a mio carico: insolente, provocatore, persecutore, autore di rappresaglie, e chi più ne ha più ne metta. E - come qualcuno di voi certo saprà - fare i conti con i giudizi di coloro che sono "perfetti" può essere un'esperienza disperante.
        Sono piuttosto stanco di questo stato di cose e sto pensando seriamente a come uscirne. Gradirei vivamente concedermi un periodo sabbatico, non dal lavoro in sé, ma dalle palate di guano che mi arrivano addosso da ogni direzione. Non discuto che siano meritatissime, sarà senz'altro così. Tuttavia mi pare un po' strano di essere l'unico a meritarmele.
        Spero di trovare presto una nuova voce amica, una nuova persona con cui dialogare fitto, possibilmente non in maniera bilaterale. Una persona di questo genere mi manca terribilmente, mi fa sentire deprivato di un interlocutore. Non ho mai inteso un'interlocutrice come una "inevitabile" compagna di letto, ma come una voce amica, insieme alla quale metterci "a parte e al riparo" del mondo. Non ne ho trovato molte, in vita mia, ma qualche volta sì, anche di recente, e sono state esperienze belle, anche se talvolta molto difficili e conclusesi in un disastro.
        Ora sono in perfetta solitudine da parecchi mesi, ormai, e, anche se non posso certo dire di stare male, la mia condizione è totalmente residuale, è un "nulla organizzato", è un monologo che ambirebbe a diventare quanto prima dialogo, bilaterale o multilaterale. Dopo tanti silenzi, e tante parole nel vuoto, mi piacerebbe tornare a parlare.

                           Piero Visani

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