giovedì 23 maggio 2013

Class

      Mi telefona una mia conoscente, docente universitario. Non la sentivo da circa tre anni. Ne sono lieto. Scherziamo un po' su questo lungo periodo di silenzio, e le sue cause, poi mi dice:
       "Complimenti per la tua uscita di scena di ieri. Bravo!".
       "Leggi il mio blog? Devo crederci?".
       "Fin dal primo giorno".
       "Ma se non eri nemmeno inclusa nella mailing list di coloro cui ne ho comunicato la nascita...?".
        "Me l'ha segnalato XY".
        "Ah, sempre una fantastica fonte di informazioni..."
        "Sì, molto efficiente e attendibile".
        "Ti piacciono le mie contorsioni mentali?".
        "In genere sì. Sei proprio tu, per come ti ho conosciuto e ti conosco".
        "Un giudizio aperto, direi..." - ironizzo io.
        "Un giudizio franco. Ma ho apprezzato la tua definitiva uscita di scena di ieri".
        "Ma se sono uscito di scena da quasi un anno...?".
        "Sì, certo, fattualmente. Ma psicologicamente no. Ti mancava ancora la fuoriuscita psicologica".
        "Secondo te ora c'è stata?".
        "Sì, direi di sì, e nel migliore dei modi possibili".
        "A che devo una così positiva valutazione? - ironizzo nuovamente io.
        "Al fatto che, a mio giudizio, le uscite di scena migliori sono quelle fatte con classe, senza rancori. Dopo tutto, in questi mesi mesi, hai espresso ampiamente le tue ragioni, i tuoi dubbi, le tue perplessità, le tue rabbie. Era venuto il momento di chiudere, definitivamente. Non tutti sanno farlo con classe, volando alto. Tu ci sei riuscito. Ti sei perfino riscattato di qualche caduta di tono passata".
        "Devo questi giudizi all'esperta di letteratura, teatro e cinematografia, o all'amica?". Chiedo nuovamente, tra il serio e il faceto.
         "A entrambe" - risponde seria lei - "Eri andato troppo avanti. Ti stavi ripetendo. Non c'era più nulla da dire che non fosse stato già detto. Non potevi fare altro che chiudere".
         "L'ho fatto".
         "Bravo!. Ti senti meglio?"
         "Per niente".
         "E allora perché hai scelto di fare così?".
         "Perché era l'unico modo per far capire che sono stato sincero. Se sei sincero, una volta sbollita la rabbia - e io ho messo davvero troppo a sbollirla - non ti resta che chiederti se le ragioni positive siano state, per te, superiori a quelle negative. Tutto ciò che mi aveva ferito lo avevo detto a iosa. A cosa sarebbe servito ripeterlo? Ho inteso ribadire che per me è stato un incontro positivo. Dolorosissimo ma positivo. E augurarle le migliori fortune".
        "Beh, ti posso dire che, da osservatrice esterna ho percepito nitidamente il tutto. E devo ammettere che mi sei piaciuto. Condivido il tuo comportamento".
         "Ne sono lieto".
         "Dunque non ti senti sconfitto..."
         "Perché dici questo? - chiedo incuriosito io.
         "Perché per tanto tempo ho avuto netta la sensazione che ti sentissi fortemente tale. Ora non più".
         "E' vero. Ora non più" - ammetto.
         "Che cosa ti ha fatto cambiare idea?  - a questo punto l'incuriosita è lei.
         "La semplice constatazione dell'incomunicabilità totale. Forse mi sono sbagliato prima, non adesso".
          "Cosa intendi dire? - sento nitidamente aumentare la sua curiosità.
          "Ho provato a spiegarmi in mille modi, in mille toni diversi, in mille modalità e codici comunicativi diversi. E ho provato a farlo in tempi in cui l'ostilità nei miei riguardi apparentemente non esisteva e - se esisteva, ma ne dubito - certo non poteva essere forte come oggi, dove almeno mi si può imputare di essere stato anche troppo tranchant e dunque di aver alimentato un fortissimo risentimento".
           "Risultato?" - chiede lei, sintetica e essenziale come sempre.
           "Zero assoluto".
           "Dunque?".
           "Constatazione di discorsi chiusi. Di mia personale inutilità. Forse di abbagli presi. O forse non so. Una serie di equivoci, una commedia degli errori. Un passaggio troppo rapido da quasi genio a tutto 'mostro'. Alquanto singolare, se vuoi".
           "Dunque saturazione?".
           "No. Direi piuttosto senso di inanità: se niente è mai andato bene, appena ho provato a scavare un po' sotto la superficie, è perché io in verità non sono mai andato bene".
           "Ergo?"
           "Meglio prenderne atto. Magari è stata semplice riluttanza a chiedermi di togliermi di torno prima, per non offendermi o per non mettere a rischio una collaborazione di lavoro. A volte, per non voler offendere, si compiono disastri. Potrebbe essere andata così. E poi, se una persona non ti vuole più parlare, è giusto rispettarne le scelte. E' vero, mi sono sentito ferito, tradito, giocato, e ho reagito esattamente come reagirebbe una persona che ha provato quelle sensazioni. Ma va bene così: accetto le decisioni altrui, non mi pento delle reazioni mie (che ritengo tuttora pienamente motivate), archivio la cosa tra i casi di incomunicabilità totale e mi tolgo di torno, con i migliori auguri nei riguardi di una persona che continuo a valutare molto positivamente. Perché non dovrei? Le auguro - le ho augurato - ogni bene".
            Lunghi momenti di silenzio, che al telefono appaiono secoli.
            "Credo tu abbia fatto bene. E' stato un gesto di classe".
            "Guarda che continuo a non pensare che 'sia [stato] proprio inutile darsi addosso'. Anzi, penso che sia stato utile e chiarificatore. Ero immerso nei silenzi e nell'incomunicabilità già allora. Non è un gesto di pentimento, il mio. E' un addio. A me era già stato dato da tanto tempo, ora l'ho dato anch'io".
            "Lo so, lo so bene. Ho letto attentamente tutto. Ma meglio chiudere - essenzialmente con te stesso, perché da tempo non hai più un interlocutore - con un gesto di classe. E' più facile andare oltre" - conclude lei.
            "Sì, concordo".
 
                                                      Piero Visani

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