venerdì 24 maggio 2013

Il 24 maggio

     Da bambino, alunno della scuola elementare "Duca degli Abruzzi" di Via Montevideo, a Torino, il 24 maggio 1957 fu un grande giorno, per me. Da settimane, la maestra Carbone, la nostra maestra, preparava l'intera classe al canto della "Canzone del Piave", che era d'obbligo per tutte le classi, la mattina del 24 maggio.
      Avevo sei anni e mezzo, e sapevo poco o nulla della storia italiana. Ma avevo la Patria nel cuore. Ce lo sempre avuta, fino a che non me l'hanno tolta. Ce l'ho ancora oggi, per la verità. Ma è uno dei miei tanti amori traditi. Non ne voglio più sapere. Mi hanno fatto troppo soffrire.
       Preparavamo quel canto fatidico, in una prima elementare di periferia in un'Italia ormai democristiana, ma ancora molto attenta alla salvaguardia di un certo patriottismo di tipo nazionale. Anche il nostro comportamento di scolari veniva premiato in base a taluni nastrini d'onore, che io esibivo con fierezza sul mio grembiulino nero, nel bel mezzo di una classe interamente e rigorosamente maschile.
       Si facevano tante prove e io ero un allievo dei più lodati, perché cantavo bene e potevo già vantare grande intonazione e sensibilità alla musica.
        Mentre ascoltavo i ripassi cui erano costretti i miei compagni, meno intonati di me, sfogliavo le pagine di una pubblicazione che ci era stata distribuita per ricordare il 42° anniversario dell'entrata in guerra dell'Italia e il mio occhio cadeva invariabilmente su una vignetta, assai simile a quelle celeberrime di Beltrame sulla "Domenica del Corriere", che ritraeva la famosa scritta, tracciata a mano su un muro diroccato nei pressi di un campo di battaglia: "meglio un giorno da leone che cento anni da pecora".
       Era un'immagine di puro stile patriottico, ma mi colpì a fondo e, nei giorni successivi, nel fitto dialogo che già allora intrattenevo con me stesso, decisi che quello sarebbe stato il motto che avrebbe informato la mia vita. E ancora oggi ripenso con qualche commozione senile che, a quel motto, in fondo sono rimasto sempre fedele. E ne sono infinitamente, pazzescamente fiero, perché mi è costato la vita, ma ce l'ho fatta.
       Sono stato fedele a tutti i miei motti infantili e giovanili, e mentre tutti mi guardano con compatimento, pensando a quanto io sia stato pateticamente cretino, credo di aver lasciato un buon retaggio a mio figlio. Ho pochi soldi, ma ho la mia dignità e il mio onore intatti. Ci tenevo, perché sono ancora, in tutto e per tutto, quello scolaretto di prima elementare, oggetto di lazzi, frizzi e compatimento, ma attento a ricordare sempre che "il mio onore si chiama fedeltà", fedeltà a me stesso.
       Poi il 24 maggio arrivava e, nelle classi più brave, spesso veniva ad ascoltarci il Direttore: un grande onore, in un'Italia ancora pervasa di qualche valore formale. E allora il nostro canto bambino aveva inizio, accompagnati al pianoforte da una docente di musica e guidati dalla nostra maestra.
        Il testo di E. A. Mario all'epoca mi commuoveva parecchio, ma trattenevo i lacrimoni. Mi consideravo già un soldato, anzi ero certo che di mestiere avrei fatto il militare, e dunque, come tale, le lacrime mi erano precluse.
         Da allora, anno dopo anno, la mia memoria va a quel giorno, ai sentimenti di quel giorno, che sono gli stessi di adesso. Ho sempre amato molto più il 24 maggio che non il 4 novembre, che è stato a lungo, fino a che la festività non è stata cancellata, la celebrazione della nostra vittoria nella Grande Guerra. Non ho mai amato il 4 Novembre perché è sempre stato il giorno della retorica dei vincitori, trombonesca e reboante. Ho sempre adorato il 24 maggio perché era il giorno della discesa in campo, delle azioni che si compiono per azzardo, per gusto del rischio, senza poterne anticipare l'esito.
         Per me, tutta la vita è stata un 24 maggio, e la amo per questo. Ho avuto pochissimi 4 Novembre, e moltissimi 8 Settembre 1943. Ho subito tradimenti e defezioni. Ma sono andato avanti da solo, con gli occhi fissi sulla meta, e oggi ho persino una bandiera da consegnare a mio figlio, che la porterà intatta nel tempo, sempre a garrire al vento, sempre in nome dell'onore e della fedeltà. Non è un successo economico - è vero - ma non sono nato mercante. Sono nato guerriero. Nel mio campo, non sono andato così male, dopo tutto.
          Ora cedo il passo alla musica. La versione solo musicale mi piace molto di più di quella cantata, perché è più sobria e lascia correre la fantasia. Ricordo mio nonno materno, Pietro Rosset, che in quella guerra si fece onore, e i due zii paterni di mia moglie, ufficiali di cavalleria diventati - secondo la tradizione dell'epoca - valenti piloti di aerei, che purtroppo ci lasciarono la pelle, carichi di medaglie. Questo ricordo è anche per loro, così come per i miei amati arditi. Ho cercato di seguire il loro insegnamento.

                                       Piero Visani