domenica 29 settembre 2013

Percettori e produttori

      Continua - ormai inarrestabile - la spirale fiscale che sta letteralmente uccidendo l'Italia. Ora è la volta di un altro punto di IVA, dal 21 al 22%. Logica vorrebbe che, per rilanciare i consumi e dare un po' di ossigeno a un'economia che si sta avviando al disastro, l'IVA venisse abbassata, non aumentata, ma - quesito essenziale - alla categoria dei percettori interessa qualcosa delle sorti della Nazione? Ovviamente no! A loro interessa soltanto proseguire in una spirale che dura esattamente da un ventennio e che non ha prodotto una sola inversione della deriva che si intendeva - a parole... - bloccare, vale a dire l'aumento del debito pubblico, che infatti è continuato allegramente a lievitare, fino a travolgerci tutti.
       L'Italia dei percettori - di quelli che, per poter avere uno stipendio netto da 600.000 euro l'anno se ne assegnano uno lordo di circa il doppio, così risultano anche fiscalmente "virtuosi", mentre noi poveri produttori dobbiamo innanzitutto cercarci un mercato e poi, se e quando siamo riusciti a trovarlo, con inenarrabili sforzi, ci vediamo decurtare i nostri introiti di cifre che vanno dal 70 all'87% per mantenere i percettori - ha letteralmente spazzato via una Nazione un tempo prospera e ora si appresta alla fase più difficile. Eh sì, perché una volta fatti a pezzi noi (e non è detto che sarà un'operazione del tutto indolore, in quanto chi ha le spalle al muro o i piedi sull'abisso poi non si contenta più di suicidarsi, ma magari comincia allegramente a "suicidare"...), dovranno ovviamente cominciare a mangiarsi fra loro.
       Trovo infatti risibile lo zelo con cui i piccoli tirapiedi della classe percettrice compiono il loro pseudodovere senza rendersi conto che, una volta spariti i produttori, totalmente "vampirizzati" dal Moloch burocratico e statale (e ormai ci manca poco), toccherà a loro, perché i grandi percettori, non producendo niente e non avendo più produttori da spogliare, dovrammo inevitabilmente cominciare a rifarsi sui piccoli percettori. E lo faranno senza esitare.
       Questa spirale in effetti è chiarissima. Quando - molto presto - lo Stato italiano NON avrà più abbastanza soldi per pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici, non avendo più produttori da depredare, perché o li avrà depredati tutti, o saranno fuggiti, o si saranno suicidati per disperazione, non potrà fare altro - come ogni Moloch che si rispetti - che cominciare a divorare se stesso e quindi i grandi pescicani di Stato cominceranno a depredare i piccoli, diminuendo i loro stipendi e costringendoli prima alla fame e poi alla morte per inedia.
       E' un quadro già tracciato, chiaro, evidente, inevitabile, se non con uno scatto di furiosa ribellione. Se tale ribellione non ci sarà, saremo tutti morti, uccisi dal Moloch omicida dello statalismo. E' una storia già scritta, più volte: perché l'Italia dovrebbe esserne immune? Se la si sa leggere, Historia magistra vitae, sempre.
                                          Piero Visani

sabato 28 settembre 2013

Storia della guerra - 7: L'alto Medioevo

  Quando, nel 732 dopo Cristo, l’espansione araba verso l’Europa occidentale raggiunse la Francia e venne fermata a Poitiers dai Franchi, guidati da Carlo Martello, il Vecchio Continente era già da tempo in preda ad una trasformazione di carattere politico-militare, oltre che economico-sociale, destinata a durare per parecchi secoli, ben oltre l’anno Mille.

   È impossibile tracciare un quadro unitario, specie nei ridotti spazio qui disponibili, di un fenomeno complesso e multiforme come il Medioevo. Si può solo accennarne, molto a grandi linee, le caratteristiche essenziali, che sono comunque di grande importanza per la storia della guerra.

   Tutto il sistema feudale, a ben guardare, è dominato da esigenze di carattere militare e di sicurezza. Nella parte occidentale dell’Europa, infatti, la caduta dell’impero romano ha determinato una frammentazione di poteri alla quale non è facile porre rimedio. Gli Stati che nascono in quel periodo sono strutture fragili, alquanto frammentate, dove il potere centrale ha difficoltà a fare sentire la propria presenza sulle periferie e dove la rudimentale struttura amministrativa, se e quando è presente, non riesce ad organizzare un sistema che consenta ai vari monarchi di reclutare eserciti anche solo per periodi relativamente brevi e a dotarli di un armamento adeguato. La più efficace soluzione che viene trovata per risolvere questo problema consiste nella concessione a un certo numero di signorotti locali, da parte del potere centrale, di appezzamenti terrieri, denominati “feudi”, all’interno dei quali i feudatari instaurano la loro autorità. In cambio, essi si impegnano a servire il loro sovrano per un limitato periodo di tempo (in genere non più di 40 giorni), mettendosi a sua disposizione a livello personale come cavalieri e aggiungendovi una porzione più o meno vasta di milizie a piedi (le quali devono tenere conto, nella loro composizione, del fatto che, per ogni uomo che va in guerra, ne devono rimanere almeno altri due o tre nei campi a coltivare la terra al posto di costui). In conseguenza di questo fenomeno, molti Stati europei cominciano a caratterizzarsi per la nutrita presenza di feudi, in genere contraddistinti da un insediamento fortificato – dapprima rudimentale e in legno, poi sempre più raffinato e in pietra o in muratura.

   Acquisire il diritto a diventare titolari di un feudo è un’operazione alquanto onerosa. Gli storici hanno infatti calcolato che un proprietario terriero dovesse poter disporre di almeno 160-180 ettari di terra per riuscire a fornire al proprio signore un singolo cavaliere (in genere sé medesimo). Con queste premesse, non è certo sorprendente che il potere e la ricchezza si fondino sulla proprietà terriera e sui castelli che ne testimoniano la presenza.

   Le conseguenze di questo fenomeno sull’arte della guerra sono notevoli e tutt’altro che positive: se quello che conta è riuscire a mettere a disposizione del sovrano una forza di cavalleria e dei contingenti di fanteria, e se la cavalleria è l’arma di cui fanno parte, per scelta di prestigio sociale e valenza militare, tutti i feudatari, è naturale che essa diventi l’arma più diffusa, relegando la fanteria in un ruolo subalterno. Si tratta di una cavalleria che viene impiegata, nella logica che si era affermata dopo le invasioni barbariche, essenzialmente come cavalleria corazzata, ma il suo numero è in genere talmente modesto da non consentire di parlare di un suo impiego a massa. Più semplicemente, siamo di fronte alla “regina della battaglia” medievale, nei cui confronti la fanteria svolge nulla più che un ruolo di supporto.

   Non si tratta di un’evoluzione casuale, ma è frutto del fatto che, nell’VIII secolo, con l’introduzione della staffa, muta radicalmente la tecnica del combattimento a cavallo: fino a quella data, infatti, il cavaliere aveva avuto non pochi problemi nel controllo dell’animale; con la staffa, per contro, egli non è più costretto a stringere con forza le proprie cosce al costato del cavallo, può ergersi sulle staffe e – soprattutto – può maneggiare con molta maggiore libertà armi decisamente più pesanti, flettendo anche il corpo in varie direzioni, ciò che gli permette altresì di accrescere la forza che conferisce ai fendenti che mena.

   L’invenzione della staffa conferisce alla cavalleria, che già godeva di un superiore prestigio sociale, anche una superiorità tecnica sulla fanteria, destinata a durare, pur con qualche incidente di percorso su cui ritorneremo, fino al 1300. Questa convergenza socio-tecnica si rivela irresistibile ai fini della supremazia tattica e strategica della cavalleria, anche se si tratta di una supremazia monocorde, che nell’impiego sul campo si traduce in soluzioni assolutamente primitive e prevedibili, come l’impiego a massa contro cavallerie di composizione e condotta analoga, o contro fanterie che si sentono socialmente inferiori, prima ancora che militarmente, ai loro avversari. Non è un caso che, quando questa condizione di subalternità non è percepita – come a Legnano nel 1176 – e quando i fanti sono liberi cittadini decisi a combattere per la difesa delle loro terre e delle libere istituzioni che si sono date, la fanteria si dimostra un difficile ostacolo per la cavalleria, dal momento che è praticamente impossibile indurre i cavalli ad attaccare i quadrati di fanti, irti di lance, spade e picche.

   Tuttavia, la strenua difesa del Carroccio a Legnano, da parte dei fanti della Lega lombarda, è un’eccezione che conferma la regola, e la regola è che, per buona parte del Medioevo, la guerra è soprattutto una guerra di cavalleria e, in subordine, di assedio, poiché i numerosissimi centri fortificati che costellano la geografia di ogni territorio di buona parte dell’Europa devono essere conquistati per non vedersi bloccato lo svolgimento di qualsiasi tipo di operazione a largo raggio. Non sorprende, dunque, che quello medievale sia il periodo per eccellenza della guerra d’assedio e delle macchine che ne costituiscono l’essenza.

   Sotto il profilo culturale, come ha egregiamente dimostrato Franco Cardini in un’opera magistrale quale Quell’antica festa crudele (Firenze, 1982), l’interazione fra il ruolo politico, sociale e militare della cavalleria, e quello religioso del cristianesimo (e la sua concezione della “guerra giusta”), ha contribuito in larga misura alla nascita di quel codice d’onore che è passato alla storia con la denominazione di “cavalleresco”. Come ha fatto notare il grande storico fiorentino, con l’affermazione del concetto di “cavalleria” si sviluppa una dimensione della guerra che presuppone una drastica limitazione del ricorso alla violenza e una forma di autolimitazione nel comportamento bellico. Tutto questo non è ovviamente frutto del caso, ma di un’omogeneità socioculturale che è generata dal riconoscimento, su versanti geografici e politici diversi, del medesimo status di “cavaliere”, figura da identificare con quella di un guerriero di professione che combatte con onore, rispetto del nemico e rifiuto della crudeltà. Come ha riconosciuto lo stesso Cardini, non sempre i comportamenti sul campo risultavano in linea con i solenni principi del codice d’onore, ma è molto importante sottolineare, proprio trattando di storia della guerra, che il codice cavalleresco continuerà a vivere (e in una certa misura vive tuttora) nel mondo militare.

   Altro aspetto che dimostra l’importanza della Chiesa in quei secoli sono le Crociate, cioè le varie spedizioni militari con cui i guerrieri cristiani tentarono di salvaguardare la Terrasanta dall’occupazione musulmana. Nel corso di esse, si poté assistere all’applicazione, da parte cristiana, del concetto di “guerra giusta”, cioè di conflitto sostenuto da motivazioni che erano talmente elevate da essere per ciò stesso giustificabili agli occhi di chi, come la dottrina cristiana, si è sempre dimostrata assai poco comprensiva nei riguardi del fenomeno bellico latamente inteso. Naturalmente, proprio per la loro natura intrinsecamente religiosa, le Crociate si distinsero per un elevato contenuto di violenza, dal momento che il nemico non era un avversario in qualche modo riconosciuto, ma un “altro da sé” nei confronti del quale, in quanto “infedele”, ogni violenza era legittima. Sul piano militare, tuttavia, esse dimostrarono che l’arte della guerra medievale, pur se primitiva rispetto ai vertici toccati ad esempio in epoca romana, era pur sempre sufficiente ad affrontare con buone prospettive di successo, per di più in un terreno relativamente poco noto, gli eserciti musulmani. Sicuramente non ci fu, da parte dei Crociati, una dimostrazione di superiore capacità tattico/strategica rispetto agli Arabi, ma ci furono grande esibizione di coraggio e valore personali, e il manifestarsi di un sistema di guerra che, per quanto imperfetto, quasi sempre si dimostrò superiore a quello dei loro avversari.

   Per concludere, nel corso del Medioevo la storia della guerra andò avanti, anche se talvolta l’arte della guerra parve andare indietro, ma si deve sottolineare che si tratta di un giudizio – quello sull’arretramento dell’arte militare – che un sempre maggior numero di storici non riconosce come fondato, preferendo evidenziare il fatto che la pratica bellica, confermando una volta di più gli stretti rapporti che la legano all’evoluzione politica, economica, sociale e culturale, assunse forme che erano quelle peculiari del suo tempo. Grandi mutamenti, del resto, erano alle porte.

                                                                 Piero Visani




venerdì 27 settembre 2013

Teoria del partigiano


   Quando, nel 1963, il grande giurista e politologo tedesco Carl Schmitt diede alle stampe un aureo libretto intitolato Teoria del Partigiano (tradotto in italiano solo nel 1981 dal Saggiatore e ripubblicato nel 2005 da Adelphi), l’intento di fondo del suo breve scritto pareva essenzialmente quello di completare e integrare il suo concetto di “politico”, per di più in un’ottica alquanto legata agli eventi di quegli anni, dalla “guerra rivoluzionaria” di matrice comunista ai tentativi di contrastarla ad opera di quelli che Giorgio Galli ebbe modo di definire “i colonnelli della guerra rivoluzionaria”, vale a dire quegli ufficiali – prevalentemente francesi – che cercarono di batterla in breccia rovesciandone principi e metodi. Riletto oggi, per contro, e sfrondato dai richiami agli eventi coevi, l’agile volumetto di Schmitt acquista un valore ben più profondo e apre significativi squarci anche sull’interpretazione del terrorismo.

   Il punto di partenza del grande politologo è che, nella classica concezione europea della guerra fra Stati, il partigiano non poteva che rimanere una figura periferica, capace di manifestarsi a più riprese ma mai di consolidarsi, perché il conflitto interstatale era caratterizzato dal fatto che i contendenti non erano nemici assoluti, ma solo relativi, capaci sì di farsi la guerra ma anche di intavolare trattative di pace non appena se ne manifestasse l’opportunità.

   Escluso dall’ambito dell’inimicizia convenzionale tipica della guerra controllata e circoscritta caratteristica dello ius publicum europaeum, il partigiano opera in un’altra dimensione, quella dell’inimicizia reale, un ambito a forte componente politica e “di parte” (termine da cui trae la sua stessa etimologia).

   Il concetto classico di “politico”, stabilito nel XVIII e XIX secolo, poggiava sullo Stato inteso secondo il diritto internazionale europeo e, in esso, la guerra era considerata come un puro conflitto interstatuale. A partire dal XX secolo, tuttavia, questa guerra fra Stati, con le sue regole ben codificate, viene messa da parte e sostituita con un conflitto di tipo nuovo. Fu Lenin il primo a convincersi del fatto che il partigiano era destinato a diventare una figura cruciale di un nuovo tipo di conflitto, nazionale e internazionale, in cui il nemico veniva privato di qualsiasi tipo di legittimità e diventava un vero e proprio criminale con il quale non ci si poteva porre alcun obiettivo di futura pacificazione, ma solo una prospettiva di annientamento. In quest’ottica, l’esplosiva efficacia rivoluzionaria della criminalizzazione del nemico era tale da trasformare il partigiano nel vero protagonista della nuova tipologia bellica.

   Solo la “guerra rivoluzionaria”, per Lenin, era guerra vera, poiché era l’unica a fondarsi sull’inimicizia assoluta, l’unica in grado di trasformarsi in uno strumento efficace agli ordini del comunismo internazionale. Tutto il resto era puro gioco convenzionale, assai prossimo alla guerre en dentelles dell’epoca dei sovrani assoluti. La guerra dell’inimicizia assoluta, per contro, non conosce alcuna limitazione e il partigiano è chiamato a darle concretamente corpo. Fu Mao a spingersi ulteriormente oltre in questa visione, interpretando la pace stessa come semplice aspetto esteriore di un’inimicizia reale, da gestire con mezzi diversi da quelli apertamente violenti, ma con finalità sempre molto aggressive.

   Per Schmitt, in definitiva, il partigiano è la figura centrale di una guerra di justa causa che non riconosce uno justus hostis. La bontà della causa per cui combatte è talmente elevata e indiscutibile che, per affermarla, nessun prezzo è troppo alto da pagare. Ed è proprio in questo totale misconoscimento delle ragioni del nemico che risiede la causa dell’ascensione della guerra verso i più terribili estremi, una realtà sempre più tristemente nota man mano che il conflitto è uscito dalla dimensione dei rapporti interstatali per entrare in una dimensione “altra”, molto più ideologizzata.

   Quello che è importante notare è che, sebbene scritta all’inizio degli anni Sessanta, quando il fenomeno del terrorismo aveva dimensioni ben più limitate di quelle attuali, Teoria del partigiano apre interessanti prospettive di indagine proprio sul terrorismo e la “guerra asimmetrica”. Operando da irregolare come è proprio della sua condizione di combattente atipico – scrive infatti Schmitt – il partigiano crea un nuovo e diverso ambito di azione e costringe il suo avversario ad entrare in questa dimensione diversa, che da un lato è spaziale, ma dall’altro è molto più indefinibile, oscura, profonda. Tale mutamento di dimensione dà origine a quello che Raymond Aron ha definito un etrange paradoxe e produce gravi difficoltà per chi è abituato ad operare nello spazio tradizionale ed a dominarlo. L’avversario diventa infatti impalpabile, usa una logica e una grammatica del conflitto che sono completamente diverse e – se davvero si intende sconfiggerlo – occorrerebbe fare proprio l’insegnamento che Napoleone diede al maresciallo Lefebvre nel settembre del 1813: «il faut opérer en partisan partout où il y a des partisans». Facile a dirsi ma non facile a farsi per uno Stato dotato di un esercito regolare. Non a caso, quando diventa evidente – e in genere, nella storia recente, lo è diventato molto presto – che la soluzione napoleonica è inapplicabile o risulta fallimentare, l’unica possibilità che resta a chi combatte in forma regolare contro elementi irregolari è quella di deplorare tale nuova forma di conflittualità, di cercare di criminalizzarla. Proprio tale tentativo di criminalizzazione rappresenta, alla lunga, un pericolo mortale per l’operato del partigiano, il quale ha bisogno di una legittimazione se intende restare nella sfera del “politico” e non sprofondare in quella criminale, dove la sua azione risulterebbe gravemente indebolita. Tale legittimazione – per quanto paradossale ciò possa sembrare – può venire al partigiano solo dall’esistenza di quello che Schmitt chiama un “terzo interessato”, cioè di una realtà “regolare” (in genere uno Stato) che gli offra aiuto e protezione, e magari anche riconoscimento formale. Tale riconoscimento, ottenuto dall’esterno o conquistato con le sole proprie forze, è un viatico indispensabile per acquisire una nuova “regolarità”, in quanto – come accennato – la dimensione irregolare non può essere mantenuta in eterno, pena lo scivolamento nella sfera criminale.

   Alla luce di queste considerazioni, non è una forzatura affermare che il terrorista è il partigiano di questi anni convulsi. In effetti, l’uomo della galassia del terrore è il portatore di un’inimicizia talmente assoluta che non solo non è disposta a concedere la benché minima legittimità all’oggetto del suo odio, ma non discrimina nemmeno più tra combattenti e non combattenti, tra militari e civili, e vede di fronte a sé solo bersagli da colpire con qualsiasi mezzo, anche il più atroce. In secondo luogo, la dimensione in cui opera è incredibilmente dilatata, è uno spazio di conflittualità nuovo, nel quale il terrorista si muove come un pesce nell’acqua, animato unicamente dal desiderio di creare ambiti di scontro nuovi. In terzo luogo, la sua natura “partigiana”, in senso etimologico, è dimostrata dal fatto che il terrorista è molto spesso eterodiretto e, anche se ama presentarsi come membro di un universo a sé stante, in realtà è sovente la longa manus di potentati di varia natura, statali ma anche no. Dunque è anch’esso un “irregolare alla ricerca di regolarità”, nel senso che sa bene che l’esito finale della sua lotta non può che essere quello di ritrovare una dimensione regolare che lo restituisca alla politica, sottraendolo alla trappola dell’emarginazione criminale.

   Se una differenza c’è, tra il partigiano e il terrorista, essa risiede nel fatto che il primo aveva un legame molto più stretto con un territorio di provenienza, un legame definibile appunto come “tellurico”, mentre il secondo è il combattente occulto e misterioso di un pianeta ormai globalizzato, dove queste appartenenze di tipo tradizionale sono ormai superate da altri legami, altre connivenze, altre contiguità.

   Il partigiano e il terrorista, in quanto portatori di un’inimicizia assoluta, sanno bene chi sia il loro nemico reale e si comportano di conseguenza. Non altrettanta lucidità paiono possedere i poteri statali, i quali sono invischiati da tempo in un circolo vizioso privo di sbocchi concreti: da un lato, infatti, denunciano l’idra terroristica in forme apocalittiche con evidenti intenti di rafforzamento del fronte interno, ma con risultati dubbi a causa di un eccessivo ricorso a forzature psicologiche e mediatiche; dall’altro non hanno ancora elaborato una strategia controffensiva che non sia basata sulla semplice potenza militare e sulla criminalizzazione di un nemico la cui identità resta però talmente vaga da renderne impossibile l’effettiva individuazione. Bisognerebbe avere il coraggio di dire di più, di identificare chiaramente connessioni e connivenze, ma spesso si preferisce non farlo perché si ritiene che una scelta del genere indebolirebbe la coesione delle nostre società. Così, alla lucida individuazione del nemico reale si preferisce la semplicistica rappresentazione mediatica di un nemico ipotetico che spesso è una caricatura, non una precisa raffigurazione della realtà. Ne consegue che, mentre il partigiano operava all’interno di una nuova e poco esplorata dimensione spaziale, il terrorista si situa al centro di una dimensione iperreale e addirittura onirica che ne amplifica – invece che limitarne – le potenzialità effettive. Carl Schmitt purtroppo è morto, ma se fosse ancora tra noi non potrebbe mancare di aggiornare le sue riflessioni scrivendo una Teoria del terrorista, che è proprio quanto ci manca.

                                                                           Piero Visani

mercoledì 25 settembre 2013

Storia della guerra - 6: Gli Arabi




6. Gli arabi

   Tra le varie minacce che l’impero bizantino dovette affrontare nel corso della sua millenaria esistenza, l’Islam – come si è accennato nella puntata precedente – fu quella che più spostò verso nuove direzioni l’evoluzione della guerra. Fino a quella data, infatti, anche se il nemico era spesso stato percepito dai combattenti come un “altro da sé”, nei confronti del quale nessuna pietà era auspicabile (prima ancora che possibile), non era in pratica mai accaduto che questo nemico fosse mosso da motivazioni diverse da quelle tradizionali di conquista: ricerca di nuove terre, espansione del proprio impero, abbattimento dei propri avversari.

   L’affermazione dell’Islam, a partire dal VII secolo dopo Cristo, apre una fase e una dimensione nuove nella storia del conflitto. Purtroppo, nella realtà odierna, è difficile parlare sine ira nec studio dell’Islam, che da qualche tempo è diventato, per ragioni ben note e per nulla condivisibili, una delle tante reincarnazioni del “Male assoluto” che i padroni del mondo, quando fa loro comodo, sono soliti evocare ogni volta che vedono seriamente messa in crisi la loro indiscussa (e indiscutibile) posizione di primato. Tale atteggiamento, tuttavia, è inaccettabile dal punto di vista scientifico e si nutre di esigenze di propaganda che in questa sede non possono ovviamente trovare ospitalità. Tenendosi lontani da queste ultime, è innegabile che, a partire dal 600 d. C., l’Islam appare come una forza nuova, spinta da una motivazione potentissima, quella religiosa. Dalla penisola arabica, i seguaci di Maometto, pur non disponendo di una dottrina militare propria e potendo contare su forze numericamente modeste, cominciano ad espandere rapidamente i loro territori per la gloria di Allah e la propagazione dell’Islam. Un’ardente fede religiosa costituisce il loro principale motore e li spinge ad affrontare rischi notevolissimi, nella serena coscienza – come è scritto sulla spada stessa del Profeta – che “La viltà non salva dal destino” (un’affermazione, sia detto per inciso, sulla quale anche molti europei di oggi farebbero bene a riflettere, perché riassume in poche parole il loro, anzi il nostro, triste futuro).

   La vulgata corrente vuole che, ogni volta che si parla di espansione islamica, sia di prammatica il riferimento alla jihad, cioè alla “guerra santa”, vale a dire a un tipo di guerra che, per come viene rappresentata, sembrerebbe un esercizio di follia isterica condotto da bande di assatanati. In realtà, nella sua accezione originale, il termine sta piuttosto ad indicare la lotta che ogni musulmano autentico deve condurre, tanto all’interno del suo animo quanto nel mondo, per rendere più forte l’Islam. Nulla di trascendentale o di particolarmente innovativo, dunque, ma probabilmente nessuno, in passato, aveva trovato nella motivazione religiosa un così poderoso fattore di espansione e conquista.

   Stretti tra l’impero bizantino, da una parte, e quello persiano, dall’altra, i musulmani d’Arabia non disponevano di forze organizzate lontanamente paragonabili, in termini qualitativi e quantitativi, a quelle dei loro avversari, ma seppero presto fare tesoro degli insegnamenti dedotti dalla pratica del conflitto. In una fase iniziale, il tradizionale metodo di guerra arabo consisteva essenzialmente nell’effettuazione di incursioni, anche a lunga e lunghissima distanza, che avevano lo scopo di indebolire la capacità del nemico di sopravvivere in un clima assai difficile. Sotto questo punto di vista, fondamentale per le forze arabe fu la loro capacità di sfruttamento del deserto, grazie alla superiore conoscenza delle scarse sorgenti d’acqua disponibili e degli altrettanto scarsi pascoli; per non parlare del fatto che il loro consumo medio di acqua era assai inferiore a quello degli eserciti nemici. Grazie a tale conoscenza, infatti, era consentita ai loro reparti una mobilità strategica che le condizioni geografiche e climatiche avrebbero indotto ad escludere (e che troppo spesso i comandanti degli eserciti avversari furono erroneamente indotti ad escludere). Tale mobilità era resa possibile dalla disponibilità di cammelli e dromedari per gli spostamenti di tutto l’esercito, fanteria compresa, mentre i cavalli dei reparti equestri erano risparmiati con grande cura e utilizzati solo nell’imminenza dei combattimenti.

   A livello tattico, costanti erano l’estrema mobilità, la ricerca della sorpresa (la soluzione tattica più diffusa era il cosiddetto karr wa farr, una sorta di anticipazione di un espediente moderno come il ben noto hit and run della tradizione militare anglosassone, vale a dire colpire di sorpresa e sottrarsi rapidamente alla reazione dell’avversario), l’impiego della cavalleria a massa e il ricorso al condizionamento psicologico del nemico mediante l’utilizzo costante e ossessivo del suono dei tamburi. Molta attenzione era prestata pure all’armamento: l’arma per eccellenza era la spada, leggera e piuttosto corta, ma molto usati erano anche le lance e gli archi. La protezione del corpo dei combattenti era relativamente leggera, in quanto le condizioni climatiche non consentivano soluzioni diverse. Tuttavia, con il passare del tempo e con il perfezionamento dell’organizzazione militare e della struttura logistica, la cavalleria – la cui importanza sul campo di battaglia stava diventando costantemente crescente – venne organizzata in modo da poter fare ricorso, al momento del combattimento, su armature decisamente più pesanti.

   In battaglia, gli eserciti arabi erano soliti sfruttare alla perfezione le caratteristiche del terreno. Inoltre, consapevoli della loro superiore adattabilità climatica, erano soliti attaccare il nemico nelle ore più torride della giornata, al fine di sfiancarlo più facilmente. La tradizione occidentale ha attribuito loro una reputazione di grande ferocia, che in realtà non è pienamente riscontrabile nelle fonti e che potrebbe in una certa misura dipendere dalla sensazione di paura diffusa dalla straordinaria espansione dell’Islam. Di sicuro, come è tipico di quell’epoca storica (e purtroppo anche di quelle successive), è probabile che i comportamenti più estremi siano stati superiori a quelli di autolimitazione.

   Un aspetto che è importante sottolineare è il ruolo attivo riservato dai primi eserciti musulmani alle donne in battaglia, un comportamento che in una certa misura le avvicina alle Amazzoni della mitologia greca. A questo proposito, val la pena di raccontare un gustoso episodio: durante la fondamentale battaglia di Yarmuk (636), che sancì la conquista islamica della Siria, un contrattacco bizantino riuscì inaspettatamente ad irrompere nell’accampamento delle forze musulmane, dove però si trovò di fronte ad un’orda di donne, armate di tutto punto e ben decise a tradurre in pratica l’ordine dell’anziana signora che le guidava, che nelle fonti viene eufemisticamente (e pudicamente) tradotto con le parole “Accorciate la terza gamba del nemico!”. Di fronte a tanta determinazione, ed ai rischi conseguenti per la loro virilità, non sorprende che i Bizantini preferissero battere rapidamente in ritirata...

   Al di là dei tocchi di colore, resta il fatto che la grande espansione geografica dei popoli arabi (dall’Indo ai Pirenei, passando per il Medio Oriente e l’Africa del Nord), dopo la loro conversione alla fede musulmana nel VII secolo, rimane uno degli eventi più straordinari della storia mondiale. Naturalmente non si trattò di un impero unitario, ma di una realtà alquanto frazionata, spesso divisa da rivalità interne, nella quale i soli veri legami erano rappresentati dalla religione musulmana e dalla lingua e dalla scrittura arabe. Come tutti gli imperi destinati ad un’esistenza non effimera, anche quello musulmano si preoccupò di consolidare la propria struttura, dotandosi di un sistema politico-amministrativo e di un’organizzazione militare permanente, ma soprattutto badò a fare opera di proselitismo religioso e culturale, spesso operando con mano tutt’altro che leggera.  

   L’evoluzione del fenomeno bellico non risultò particolarmente condizionata, nei suoi aspetti fondamentali, durante l’espansione islamica, anche se la mobilità strategica evidenziata dagli eserciti musulmani, la loro flessibilità operativa, il ricorso a soluzioni tattiche in grado di sopperire agli elementi di debolezza e a valorizzare i fattori di forza, devono essere tutte considerate novità di notevole rilievo. La discriminante fondamentale, tuttavia, fu rappresentata dalla sovrarappresentazione della componente religiosa, in termini che fino a quel momento nessun esercito aveva praticato. I guerrieri dell’Islam erano spinti da una fede profonda, da convincimenti apparentemente incrollabili, e stavano spostando il conflitto da una dimensione essenzialmente politica, nella quale era rimasto circoscritto fino a quella data, ad una dimensione “altra”, nella quale nuovi e diversi fattori diventavano cruciali, e dove l’ostilità reciproca si allargava a territori nuovi, in buona parte inesplorati. La guerra tra avversari che si riconoscevano, per quanto talvolta a fatica, una legittimità reciproca, tendeva a mutare natura, a configurarsi come un gioco al massacro tra nemici implacabili, dove l’altro era sempre un “altro da sé”, con il quale nessuna reale mediazione era possibile. Si delineavano i contorni di una dinamica che aveva ancora molta strada da fare e che, purtroppo per noi, l’avrebbe percorsa fino in fondo.
 
                                              Piero Visani

lunedì 23 settembre 2013

Sparire... con classe

      A volte è necessario sparire. A volte è indispensabile. A volte è bello, a volte semplicemente non se ne può fare a meno, per varie ragioni.
      A volte si tratta di decisioni prese d'impulso, senza ponderarle bene, e può capitare in qualche caso di pentirsene. Ma, quando la scelta di sparire è quella che appare più corretta, quella su cui si è riflettuto molto e di cui si sono analizzati i pro e i contro, allora si può procedere senza problemi.
       Agli egosintonici come me, infatti, l'autostima non va mai via e si tratta soltanto di capire come e quando esercitarla. Leggi le cose che scrivi, rifletti su quelle che pensi, ti guardi attorno e cerchi di analizzare ogni singolo segnale o stimolo che ti perviene dalla società circostante.
      A quel punto, le decisioni sono mature e diventano infinitamente più facili, perché la tua grande personalità deve essere spesa su versanti positivi, non negativi. Devi andare ad aggiungere colori, i tuoi colori, ad un mondo che spesso a te appare troppo opaco. Devi vivificarlo. Serve la tua opera di maieuta, di interprete, di sensibile descrittore di persone, ambienti, situazioni.
       E ci vai, con tranquilla naturalezza, contento di non essere nemmeno da solo. Eh sì, perché nulla della tua capacità di fascinazione è andato perduto, e non è che ne avessi poca, già prima... Anzi, passare attraverso le "tempeste d'acciaio" te ne ha aggiunta ancora, e te la riconoscono pure...
       Vai, Piero, vai...!
 
                     Piero Visani

Tempeste d'acciaio


   Per chi – come chi scrive – l’attrazione per le cose militari risale alla prima infanzia, in termini da poter essere definiti, parafrasando Hillman, “un terribile interesse per la guerra”, inspiegabile se non facendo riferimento a vite precedenti, l’incontro in età giovanile con un libro come Tempeste d’acciaio di Ernst Jünger è stato un appuntamento cruciale. C’era infatti bisogno di qualcosa e di qualcuno che mi aiutasse a sciogliere alcuni nodi concettuali, che mi servisse a comprendere, in un periodo della vita in cui mancano ancora strumenti interpretativi adeguati, in che cosa consistesse la mia personale diversità rispetto al blando pacifismo diffuso nella società italiana degli anni Sessanta.

   Lo acquistai per caso, su una bancarella di libri usati, attratto soprattutto dal titolo, dato che dell’autore, all’epoca, sapevo davvero poco. E fu quasi un’eccezione, visto che le mie preferenze di lettura andavano (allora come ora) alla saggistica. Quanto lessi nella prima pagina mi fece capire che si sarebbe trattato di un libro interessante: «Cresciuti in un secolo di sicurezza e di certezze, sentivamo tutti la nostalgia dell’insolito, del grande pericolo. Allora smaniavamo per la guerra». Io, nato pochi anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale, non smaniavo per la guerra, ma sentivo l’attrazione per il “grande pericolo”, così come me l’aveva descritto mio nonno materno in lunghi racconti delle sue esperienze sul Carso e come lo vedevo rappresentato in mio zio, ardito, combattente di Abissina e di Spagna, paracadutista della “Folgore” preso prigioniero ad El Alamein nel’ottobre 1942. In maniera confusa, ma forte, sentivo che a me mancava quell’esperienza che Alan D. Altieri ha brillantemente sintetizzato nella formula “andare dentro” e invidiavo chi – come mio zio – l’aveva fatto volontariamente.

   Sotto questo profilo, la lettura di Tempeste d’acciaio è quasi un percorso di formazione, compiuto per di più in compagnia di un uomo che non solo è uno dei pilastri della cultura del Novecento, ma – fatto che nel mio personale metro delle cose rimane a tutt’oggi più importante – è anche uno dei pochissimi tedeschi che, nella lunga e brillante storia militare del suo Paese, ha saputo meritare una decorazione ambitissima come la croce Pour le mérite (appena 5.430 assegnazioni dal 1740 al 1918).

   Chi si aspetta di trovare in Tempeste d’acciaio l’acritica esaltazione di una personale esperienza bellica, magari intrisa di reducismo e di un tocco di autocompiacimento per quanto fatto in battaglia, è completamente fuori strada. Il libro è semmai il resoconto di un itinerario personale dagli esiti per nulla scontati. La vulgata dominante in materia, esclusa la trappola del reducismo, vorrebbe che un’opera del genere rappresentasse l’esito classico del divario tra teoria e realtà, dunque tra i furori bellicisti di una generazione cresciuta nei miti del nazionalismo e dell’imperialismo e la tragica realtà della guerra, con il suo carico di sangue, morte, sofferenze, mutilazioni, fino alla “naturale” conclusione del rinnegare le proprie illusioni giovanili ed il tranquillizzante approdo ad un pacifismo “politicamente corretto”. Niente di tutto questo. L’itinerario personale c’è e consiste in una descrizione per nulla agiografica del conflitto, con le sue violenze e le sue distruzioni («Quel luogo era il regno assoluto della sofferenza ed io,…, guardai come attraverso una fessura infermale nei suoi abissi), ma accompagnata da un’incredibile capacità di essere al tempo stesso dentro e fuori ciò che accade. Il pluridecorato combattente Jünger è “dentro” la battaglia e – la prima volta che ciò accade – non ha difficoltà a dichiarare che ciò lo riempie «di una gioia pazzesca»; lo scrittore ne è “fuori”, la guarda dall’alto, ne studia gli effetti su di sé e sugli altri uomini.

   È una guerra relativamente cavalleresca, almeno negli intenti di fondo, quella che viene combattuta sul fronte occidentale nel 1914-18, ma tende rapidamente ad evolvere in una “battaglia di materiali” (Materialschlacht), dove le virtù individuali cedono il posto allo scontro tra sistemi produttivi. Su questo sfondo, gli spazi per i singoli si restringono, ma non scompaiono; anzi, si forgia una comunità di guerrieri che del combattimento conosce più «l’esaltazione del cacciatore» che «l’angoscia della preda». Una comunità legata da vincoli solidissimi, animata da un’assoluta lealtà reciproca, forgiata emotivamente dal suo desiderio di “vivere di più”, capace di provare sensazioni difficilmente descrivibili o da risultare – se descritte – incomprensibili ai più: «In quegli attimi non mi prese affatto la paura, ma ebbi la sensazione, quasi demoniaca, di una estrema leggerezza; ogni tanto mi assalì anche un riso convulso, che non riuscivo in alcun modo a frenare». Un sentimento difficile da spiegare e che ai più potrebbe apparire altamente inquietante, ma che Jünger chiarisce con estrema naturalezza: «Quegli uomini erano animati da qualcosa che non negava l’atrocità della guerra, ma la spiritualizzava, una voglia autentica di affrontare il pericolo, il desiderio cavalleresco di vincere la propria battaglia. Nel corso di quattro anni, il fuoco forgiò combattenti sempre più puri e audaci».

   Un’esperienza estrema, dunque, anzi quasi un percorso esoterico. Ma non fine a se stesso, bensì fondamentale per il conflitto ed i suoi esiti, dal momento che, «per quanto colossali fossero le masse di uomini e di materiali, il lavoro, nei punti decisivi, era sempre portato a termine da pochi uomini» coraggiosi e disposti ad andare fino in fondo nell’assolvimento del loro compito. Ritorna dunque con forza, quanto più il conflitto si protrae, il concetto di una comunità di guerrieri, i «principi delle trincee» forgiata nel ferro e nel fuoco, oltre che nel sangue, dalla quale scaturisce un insegnamento fondamentale, quello per cui «…non si conosce nessuno se non lo si è visto nel pericolo».

   Malgrado tutti questi sforzi, le sorti del conflitto, per la Germania guglielmina, volgono al peggio, anche se la chiusura delle ostilità sul fronte orientale consente di concentrare su quello occidentale tutte le risorse ancora disponibili per un’ultima disperata offensiva, con la quale ribaltare la situazione. In una circostanza del genere, quando l’entità della posta in gioco è altissima, non c’è spazio per la paura, ma solo per i guerrieri: «Nell’avanzare, un terribile furore bellico s’impadronì di noi tutti. Una smania incontenibile di uccidere accelerava i miei passi. Avevo in corpo una tale rabbia che mi fece piangere. L’immensa volontà di distruzione che pesava su quel campo di morte si concentrava nei cervelli, avvolgendoli in una rossa nebbia. Singhiozzando e balbettando ci scambiavano frasi senza senso e uno spettatore non prevenuto avrebbe certo immaginato che fossimo sul punto di soccombere ad un eccesso di felicità».

   Sono parole forti, straordinariamente forti, ma anche terribilmente sincere, e non privano certo chi le ha scritte di una dimensione di umanità, se lo stesso Jünger, guardando il corpo di un giovane inglese da lui ucciso, scrive: «Lo Stato che si solleva dalla responsabilità [per il comportamento dei combattenti in guerra], non ci può liberare dalla tristezza; la dobbiamo sopportare fino in fondo, sin nelle profondità dei nostri sogni».

   Personalmente poco incline alle verità rivelate, quali che siano, la lettura giovanile di Tempeste d’acciaio mi ha ulteriormente rafforzato nelle mie convinzioni e mi ha persuaso del fatto che persino un fenomeno estremo come la guerra possa essere oggetto di interpretazioni “altre” rispetto a quelle correnti e banalissime propugnateci ogni giorno dalla cultura dominante. La guerra che emerge dalle pagine di Jünger è certamente una “festa crudele”, ma è anche qualcosa di infinitamente superiore, è un’esperienza iniziatica che, se nelle sue forme più rarefatte appare riservata a soggetti raffinati come lo scrittore tedesco, nelle sue forme più generali è la cartina di tornasole di quanto di meglio (e anche di peggio) possa offrire un popolo.

   Viviamo in una civiltà anestetizzata, dove le uniche sensazioni forti ammesse sono quelle della “violenza rappresentata” in ambito mediatico e dove tale rappresentazione ha raggiunto estremi talmente marcati che occorre perfino chiedersi – e in taluni casi non sarebbe neanche infondato a livello molto concreto – se dietro la rappresentazione ci sia violenza vera, o soltanto un impiego artificioso e strumentale della medesima. A livello ufficiale, la violenza non esiste o, più correttamente, è la peggior forma relazionale possibile, la più deprecata, la più stigmatizzata. Eppure, se usciamo dalla dimensione mediatica e entriamo in quella reale, ci accorgiamo che non di semplice rappresentazione si tratta, ma di un qualcosa che possiamo toccare concretamente con mano e alla quale non ci possiamo in alcun modo sottrarre, ma che siamo obbligati a subire. Viene di continuo agitato su di noi lo spettro della più oscura e terribile delle violenze, quella terroristica, ma la reazione ad essa varia dall’inanità totale all’aggressività cieca e senza senso.

   Il fatto è che per troppo tempo la cultura dominante in Occidente (termine che mi repelle quasi fisicamente) ci ha spiegato che la violenza è insensata e, ora che l’Occidente stesso ne è pesantemente oggetto, non può negare le sue premesse, ma deve puntare sulle guerre “asettiche” dei bombardamenti a distanza, sulle guerre “segrete” delle forze speciali o su quelle “per procura” degli Stati clienti. Le “tempeste d’acciaio”, oggi, non sono semplicemente ammissibili. Potrebbero far sorgere, in chi le combatte, cattivi pensieri e “inaccettabili” interrogativi. Potrebbero indurre il “consumatore indifferenziato” ad “andare dentro”, e non necessariamente solo nei supermercati. Potrebbero far nascere una nuova comunità di guerrieri. Non sia mai. Ma siamo vicini ad "albe tragiche", non necessariamente dorate, e dobbiamo con forza sperare nell'eterogenesi dei fini; anzi, dobbiamo darci da fare per determinarla.

                                                                              Piero Visani

giovedì 19 settembre 2013

Storia della guerra - 5: L'impero bizantino


5. L’impero bizantino

   È possibile gestire il declino di un impero addirittura per un millennio, facendo ricorso ad un’abile combinazione tra superiorità tecnologica in campo militare, astuzia diplomatica e relativa prosperità economica? La domanda, tanto cara – non a caso... – agli strateghi occidentali odierni, consente una risposta positiva: se c’è riuscito l’impero bizantino, perché non potrebbe riuscirci l’Occidente (inteso nell’accezione classica, con gli Stati Uniti in posizione dominante e l’Europa in condizione subalterna), che peraltro sta provando a farlo già da tempo?

   Com’è noto, l’impero romano d’Occidente cadde nel 476 dopo Cristo, ma il suo omologo d’Oriente (con capitale Bisanzio e dunque conosciuto come impero bizantino) sopravvisse fino al 1453, dando prova di una straordinaria longevità. Al momento della grandi invasioni barbariche, la parte orientale dell’impero romano era quella economicamente più prospera e che aveva mantenuto una maggiore solidità dell’apparato statale. Di conseguenza, non solo non fu travolta dagli attacchi delle popolazioni che per convenzioni sono dette barbariche, ma riuscì a rimanere la maggiore potenza di quella parte del mondo almeno fino al sacco di Costantinopoli ad opera dei Crociati (1204) e a sopravvivere poi ancora per 250 anni, fino alla sua caduta ad opera dei Turchi ottomani.

   Questo straordinario esempio di longevità da parte di una costruzione imperiale fu dovuto, in larga misura, ad una efficace combinazione di fattori. Si è già detto, ad esempio, della solidità istituzionale ed economica dell’impero romano d’Oriente al momento del crollo di quello d’Occidente. Tale solidità strutturale, tuttavia, non sarebbe stata sufficiente se l’impero bizantino non avesse potuto contare su un apparato militare efficiente, su una tecnologia militare all’avanguardia e su una visione strategica ispirata alla difensiva, essenzialmente intesa, cioè, a garantire la perpetuazione dell’impero a dispetto dei suoi numerosi nemici.

   L’apparato militare, per cominciare, era ricalcato sull’organizzazione politico-amministrativa, denominata “tema”, e – come tale – permetteva al potere centrale di reclutare una parte consistente del proprio esercito su base locale, mentre il nucleo centrale delle forze, denominato “tarmata”, era dislocato nei dintorni della capitale. In tal modo, fu possibile ottenere una buona amalgama tra componente militare a reclutamento locale e componente professionale, dove era rilevante la presenza di mercenari.

   In secondo luogo, dottrina e tecnologia militare furono oggetto di un’attenzione che aveva scarsi precedenti nel mondo romano, che aveva combattuto a lungo contro i propri nemici, ma in una logica ben diversa da quella della mera sopravvivenza. A Bisanzio, per contro, la classe dirigente era ben consapevole del fatto che, per affrontare nemici che premevano da varie direzioni, occorreva poter contare su un sistema militare che fosse, sotto ogni aspetto, superiore a quello degli avversari. Da ciò derivò un’attenzione senza precedenti agli aspetti dottrinali della guerra, con un fiorire di pubblicazioni sui problemi tattici e strategici del conflitto che diventarono l’indispensabile patrimonio cognitivo di chiunque facesse parte del corpo ufficiali. Il che non era sorprendente, se l’esistenza dello Stato dipendeva in modo totale dalle capacità delle sue forze militari.

   A livello operativo, la consapevolezza che i nemici dell’impero erano in grado di mettere in campo eserciti numericamente assai superiori, indusse gli strateghi bizantini non solo a sviluppare una visione essenzialmente difensiva, basata sull’economia delle forze (nessun generale poteva permettersi il lusso di sprecare in battaglia le vite dei propri soldati e, per contenere le perdite, venne addirittura sviluppato un rudimentale servizio sanitario) e su un solido sistema di piazzeforti e fortificazioni di vario tipo, ma li indusse altresì a cercare di sviluppare quei fattori tecnico-tattici che potessero consentire ai loro eserciti di sopperire ad una costante inferiorità numerica.

   Sul piano tattico, poiché le armate dei nemici dell’impero erano costituite per lo più da orde di cavalieri, grande attenzione venne rivolta alla sviluppo della cavalleria catafratta, vale a dire di una cavalleria pesante, armata di lancia e arco, i cui componenti erano dotati di robuste armature, così come protetti da armature erano pure i loro cavalli. In questo modo l’esercito bizantino poteva disporre di una forza d’urto da utilizzare a massa, la quale, in virtù di un abile impiego tattico, poteva sempre dimostrarsi superiore ai propri nemici nel punto di gravità di ogni battaglia.

   Sul piano tecnologico, tuttora oggetto di controversie tra gli storici è la questione dell’impiego, da parte bizantina, del “fuoco greco”, vale a dire di un materiale incendiario che non era certo ignoto ai contemporanei, ma che i bizantini impiegarono massicciamente e con ottimi risultati, anche e soprattutto in ambito navale. Taluni storici hanno sostenuto la tesi che il “fuoco greco” fosse il risultato dell’accensione di sostanze come nafta o zolfo e calce viva. I bizantini, che mantennero sempre una coltre di segreto intorno alla sua reale composizione, lanciavano tale miscuglio infuocato sotto forma di proietti incendiari, mediante sifoni di ottone, usando come propellente acqua pompata dal mare. Il risultato doveva essere piuttosto significativo, se la memoria di quest’ “arma speciale” è giunta fino a noi circonfusa da un’aura di invincibilità, di superiore – e decisiva – efficienza tecnologica.

   Ma non è tutto, poiché la guerra conobbe altre importanti trasformazioni durante il periodo bizantino, essenzialmente sotto il profilo culturale. Durante l’epoca romana, infatti, la gestione del conflitto era stata improntata, così come era avvenuto nel periodo greco, essenzialmente come uno scontro frontale, ispirato ad una logica di contrapposizione aperta dove c’era poco o punto spazio per qualsiasi forma di astuzia, di inganno deliberato del nemico. La guerra era un terreno di confronto di valori virili, ispirati ad un’etica guerriera, dove chi combatteva disdegnava certe pratiche che oggi definiremmo “trasversali” e dove la vittoria era frutto di un confronto leale. Nel periodo bizantino, per contro, questa visione subì un ridimensionamento: per un impero che doveva soprattutto sopravvivere e che non disponeva di un potenziale umano da poter sprecare in conflitti sanguinosi, la guerra psicologica, i tentativi di confondere il nemico, il ricorso all’inganno, l’abile miscela tra potenza militare e arte diplomatica si fusero nell’elaborazione di una concezione nuova, molto più complessa e articolata, dove il semplice valore sul campo non era più l’unico fattore da prendere in considerazione. A ciò si deve aggiungere – e la cosa conferisce a questo quadro un ulteriore tocco di modernità – il fatto che l’affermarsi dell’Islam inserì in questo contesto un’altra dimensione ancora, quella della guerra di religione contro un nemico che aveva un altro Dio e ispirava la propria condotta a un differente universo di valori.

   Come si può notare, dunque, ci sono alcune significative affinità tra l’impero bizantino e la realtà attuale; affinità che, tuttavia, non possono e non devono essere sopravvalutate, in quanto ogni epoca fa storia a sé. Quello che è importante sottolineare, semmai, è la flessibilità di cui la classe dirigente politico-militare bizantina diede prova nel momento in cui si trovò ad affrontare nutrite e sempre diverse schiere di nemici. Ad esempio, quando la rapida diffusione dell’Islam mise gli eserciti bizantini alle prese con quelli arabi, basati su masse di cavalleria leggera, i catafratti subirono una riorganizzazione che consentì loro di poter fronteggiare efficacemente i nuovi nemici sulla base di un dispositivo tattico meno rigido.

   Per quasi un millennio, dunque, l’esercito bizantino costituì il nerbo di un impero che cercava di sopravvivere e di mantenersi potente in un mondo ricco di insidie. Fino a che fu possibile preservare una qualche forma di equilibrio tra le forze a reclutamento locale e i reparti mercenari, la sua efficacia operativa fu garantita. Quando però tale equilibrio si dissolse e la componente mercenaria (spesso straniera) divenne sempre più importante, si manifestarono gli stessi problemi che avevano causato la crisi dell’impero romano d’Occidente: scarsa propensione al combattimento, esigenze economiche sempre crescenti, mancanza assoluta di disciplina, propensione alla sedizione. Naturalmente, non fu questa l’unica causa della caduta di Bisanzio, dal momento che l’impero romano d’Oriente aveva ormai esaurito il suo ciclo e la sua stessa funzione storica, ma certo fu una delle cause, e non delle meno importanti.

   Quello che a noi interessa porre in rilievo, in questa sede, è che nel periodo di Bisanzio la guerra si arricchì di dimensioni nuove, nessuna delle quali era ovviamente priva di precedenti, ma che forse non si erano mai trovate contemporaneamente fuse: aspetti tecnici, aspetti culturali, dinamiche politiche e psicologiche stavano arricchendo la natura del conflitto e conferendogli sempre maggiore complessità, in linea con l’evoluzione del resto della società. La guerra non era mai stata – e mai avrebbe potuto essere – un fenomeno esclusivamente tecnico, ma ora si stava complicando vieppiù, coinvolgendo fattori che in passato le erano stati solo parzialmente propri. Si era innescata una dinamica che prosegue ancora oggi.
                                    Piero Visani                              
     
                  

                          

martedì 17 settembre 2013

Storia della guerra - 4 - Il mondo romano: l'Impero




4. Il mondo romano – L’impero

   La storia dell’impero romano, da Augusto a Romolo Augustolo, è centrale nella storia della guerra perché dimostra come il fenomeno bellico non sia una realtà univoca, fatta unicamente di soldati e armamenti, ma un problema di estrema complessità, nel quale lo strumento militare, per quanto importante, è solo una componente in mezzo ad altri fattori, politici, economici, culturali e psicologici, i quali devono essere analizzati nella loro globalità, onde evitare un approccio puramente tecnico, che sarebbe del tutto insufficiente a comprendere la vastità delle questioni sul tappeto.

   Com’è stato ampiamente dimostrato da Edward Luttwak ne La grande strategia dell’impero romano (Milano, 1981), nel periodo imperiale lo strumento militare venne utilizzato da Roma – sia pure con modalità e fasi diverse – essenzialmente come forza di dissuasione. In una prima fase, corrispondente al dominio della dinastia Giulio-Claudia (dunque da Augusto fino al 70 d.C.), il potere imperiale era talmente forte da potersi permettere di utilizzare le legioni come semplice supporto delle forze militari degli Stati “clienti”, alle quali era affidato in prima istanza il compito di difendere i confini dell’impero. Da questo punto di vista, fu proprio Augusto a completare il processo di professionalizzazione dell’esercito romano, confermandone la natura di istituzione stabile, dove chi vi entrata restava in servizio per un periodo di 20 anni. Un esercito di mestiere, dunque, i cui membri percepivano uno stipendio fisso, potevano sviluppare una carriera e vedersi riconosciuta, al termine della stessa, la concessione di un appezzamento di terra. Un esercito solido, ben addestrato, reclutato prevalentemente in Italia e nelle province più romanizzate, in grado di svolgere nel migliore dei modi i suoi compiti.

   Nell’età dei Flavi e degli Antonimi (70-180 d.C.), gli alleati furono gradualmente esclusi dai compiti di difesa delle frontiere e vennero sostituiti dalle forze militari romane. Questa scelta ebbe due conseguenze: da un lato, consentì all’imperatore Traiano (98-116 d.C.) di svolgere azioni militari che valsero a Roma importanti guadagni territoriali, come la conquista della Dacia, utile alla difesa della frontiera danubiana, e l’annessione di Armenia, Mesopotamia e Assiria. Queste tre province, tuttavia, dovettero essere volontariamente abbandonate dal suo successore, Adriano, in quanto la loro occupazione si rivelò eccessivamente onerosa sul piano finanziario e rischiosa su quello strategico. Dall’altro lato, la scelta di affidare alle legioni compiti di difesa statica del limes, invece che tenerle pronte ad agire come massa di manovra per intervenire nei punti minacciati, ebbe conseguenza notevoli sulla natura stessa dell’esercito romano. Da forza mobile, dotata di grande efficacia operativa, esso si trasformò infatti in armata stanziale, e tale trasformazione non fu priva di conseguenze. Se una legione, ad esempio, poteva rimanere per anni, quando non per decenni, di stanza in una remota provincia dell’impero, non era sorprendente che i suoi membri sviluppassero relazioni con donne locali e formassero famiglie. Quanto tutto questo potesse nuocere allo spirito combattivo è facilmente comprensibile, per non parlare del fatto che lo sviluppo di rapporti privilegiati tra i comandanti locali e le proprie truppe favorì anche l’insorgere di fenomeni di sedizione e di conseguente instabilità politica.

   Non fu soltanto lo spirito guerriero, tuttavia, a deteriorarsi. Anche la composizione dell’esercito, a partire da Traiano, subì modifiche significative: fino a quella data, l’ingresso nelle legioni era stato riservato ai cittadini romani; Traiano, per contro, bisognoso di rafforzare lo strumento militare per le sue imprese di conquista, aprì l’arruolamento anche ad elementi provenienti dalle province, conferendo loro la cittadinanza nel momento in cui si arruolavano. L’esercito, così, iniziò un processo di trasformazione in armata multinazionale che ne peggiorò progressivamente il livello qualitativo. Si trattava peraltro di una scelta quasi obbligata: la natura professionale della funzione militare e il fatto che il servizio si fosse trasformato in tediosi compiti di guarnigione a migliaia di chilometri dai luoghi di origine, stavano mutando la natura della componente militare, che ormai era il punto di approdo solo degli elementi più disagiati sotto il profilo economico o più in difficoltà sotto quello dell’inserimento sociale. Con una parabola che altri imperi hanno vissuto successivamente, i primi indizi di decadenza cominciarono a manifestarsi nel momento in cui venne meno lo spirito civico, si svilupparono gli egoismi individuali (peraltro stimolati dai cattivi esempi di vertice), crebbe l’edonismo e diminuì, in forma speculare all’incremento di quest’ultimo, la volontà di combattere.

   Fino a circa la metà del III secolo dopo Cristo, questo strumento militare, per quanto minato nelle fondamenta, riuscì ad assolvere complessivamente i propri compiti, ma poi esso tese a diventare sempre più rigido. La stessa creazione, ovunque possibile, di linee di difesa fortificate (si pensi al Vallo di Adriano nell’Inghilterra settentrionale) stava a dimostrare l’affermarsi di una concezione strategica errata, troppo statica e soprattutto incapace di fare fronte ad offensive sempre più massicce. In questa fase di progressivo logoramento, stava venendo meno la visione stessa che era stata alla base dell’affermazione dell’impero romano, vale a dire una concezione flessibile, capace di usare l’apparato militare essenzialmente come forza di dissuasione e in grado di farsi promotrice della pax romana non solo con il ricorso alle armi ma anche e soprattutto con il vigore delle sue concezioni politiche e culturali.

   L’impero romano del periodo della decadenza, per contro, è una grande costruzione che ha smarrito (o dimenticato) i valori e gli strumenti che lo avevano fatto grande, e che, per di più, affida la propria difesa ad eserciti dove cresce anno dopo anno la presenza di soggetti che romani non sono e che si comportano e combattono sulla base di quella che è la loro cultura, profondamente diversa da quella romana. Anche sul piano tattico, ad esempio, la grande flessibilità operativa della legione, la sua capacità di adattarsi alle situazioni di combattimento più diverse, cede il posto ad un ritorno alla massa che è frutto della necessità e che, di fronte alle masse numericamente ben più consistenti dei barbari che premono, ai confini prima e poi dentro gli stessi confini dell’impero, si dimostra una scelta palesemente suicida.

   Nella seconda metà del III secolo d. C., l’esercito romano soffre delle stesse tare che affliggono il resto dell’impero: l’ideale imperiale, il senso della missione romana nel mondo, eccezion fatta per un formale ossequio alle tradizioni, è ormai venuto meno; la crisi della funzione guerriera ha messo l’esercito ai margini della società, mentre la pesante crisi demografica gli rende impossibile poter contare su una solida riserva numerica; isolata e costretta a scelte autoreferenziali, la classe militare, per le ragioni che sono state in precedenza descritte, è forse quanto di meno romano possa esistere, anche se il peso che la tradizione esercita su di essa è talmente forte da indurla, in parecchie occasioni, a percepirsi come la sola e unica in grado di difendere l’impero dai suoi nemici. Tuttavia, la frammentazione dell’apparato militare su scala provinciale ha creato una serie di potentati che non sviluppano un’identità collettiva, ma si mettono in lotta fra loro per dividersi la supremazia all’interno di un impero che sta morendo, ciò che contribuisce a indebolirlo ulteriormente.

   La riorganizzazione dell’impero, intrapresa da Diocleziano (284-305 d.C.) e Costantino (306-337 d.C.), cercò di porre rimedio a questo processo di disgregazione dell’esercito, ma la forza armata di composizione prevalentemente germanica che i due imperatori riuscirono a mettere insieme, pur svolgendo egregiamente il proprio compito, era qualcosa di estremamente diverso dall’esercito romano di tipo classico e assomigliava molto di più alle orde barbariche che la stavano attaccando. Non c’è migliore attestazione di questa del fatto che l’impero romano crollò molto più per dissoluzione interna che per spinte esterne, le quali si limitarono ad accelerare una dinamica di disfacimento.

   Quando Roma era stata all’apogeo della sua potenza, l’esercito aveva interpretato al meglio la sua concezione imperiale, sviluppando una propria forma di guerra e imponendola agli avversari, ma facendosi altresì fattore di civiltà, strumento di ampliamento di un potere che aveva obiettivi ben più ampi di quelli puramente militari e mirava alla diffusione di una cultura e di una visione politica. Peculiarmente romano, l’esercito dei secoli del predominio imperiale era provvisto di una fortissima identità propria, a tutti i livelli. Questa identità, tuttavia, era venuta progressivamente meno man mano che lo spirito guerriero si attenuava e la funzione militare acquistava caratteristiche diverse, più burocratico-professionali che strettamente tecniche. La sua sorte era segnata nel momento stesso in cui il suo destino non era più nelle mani dei cittadini, ma di “barbari” cooptati.
                                                                Piero Visani





                                                                                 

domenica 15 settembre 2013

Storia della guerra - 3 - Il mondo romano: la Repubblica


3. Il mondo romano – La repubblica

   Il passaggio più naturale, procedendo a volo d’uccello come stiamo facendo in questa serie di brevi scritti, è ovviamente quello dal mondo greco a quello romano. Abbiamo scelto tuttavia di dividere la trattazione in due parti, una dedicata al periodo repubblicano e l’altra a quello imperiale, onde evitare un eccesso di sintesi.

   In origine, proprio come nelle città-Stato della Grecia, l’esercito romano, composto da tutti coloro che disponevano di un censo e avevano la possibilità di pagarsi l’armamento, veniva formato solo quando la situazione politico-militare lo richiedeva, e combatteva le sue battaglie basandosi sulla potenza della massa, proprio come aveva fatto e stava facendo la falange greca. Ben presto, però, le condizioni stesse del territorio italiano persuasero la dirigenza militare romana del fatto che si rendeva necessaria un’organizzazione più flessibile, più adatta ad adeguarsi ad un terreno rotto, sovente montuoso, dove un apparato militare operante eccessivamente a massa sarebbe stato alla mercé di qualsiasi avversario. Su questo sfondo nacque il primo abbozzo di legione romana, formata dai veliti (i cittadini più giovani, più poveri e dotati di conseguenza di armamento più leggero, i quali stavano davanti allo schieramento e svolgevano compiti di fanteria leggera), dagli astati (anch’essi giovani e vigorosi, ma provvisti di armamento più pesante e in grado di formare le prime file dello schieramento legionario), dai principi (uomini più maturi, con esperienza bellica, destinati a formare il nucleo centrale della legione) e infine dai triari (veterani induriti dalle campagne, esperti ma ovviamente non più vigorosi come i loro commilitoni).

   Il pregio principale della legione era la sua grande flessibilità tattica, che le permetteva di adeguarsi alle situazioni operative più diverse. L’unità di base che la componeva – il manipolo, forte di circa 200 uomini – poteva essere rapidamente staccato e altrettanto celermente riattaccato al nucleo centrale dello schieramento legionario, con ottimi risultati: potenza e massa, infatti, si abbinavano nel migliore dei modi alla capacità di essere efficaci nelle più disparate condizioni tattiche.

   Anche l’armamento dei soldati romani era una testimonianza di tale capacità di fare propri sistemi d’arma di cui si era verificata, magari a proprie spese, l’efficacia sul campo di battaglia: dai Galli era stato preso ad esempio lo scudo, dai Sanniti il giavellotto, dagli Iberici il gladio, dai Greci e dai Cartaginesi le armi della cavalleria e le macchine da assedio. L’esercito romano, di conseguenza, era fornito di quanto di meglio era tecnicamente disponibile all’epoca.

   Oltre a ciò, la disciplina era tenuta con estremo rigore, un rigore che spesso sfociava nella brutalità a carico di non fosse pronto nell’adeguarvisi, mentre l’addestramento era estremamente curato, sia a livello individuale sia per quanto concerneva i movimenti tattici.

   Le carenze, tuttavia, non mancavano. La prima e forse più grave era il sistema di comando. L’alternanza dei consoli impediva infatti l’esercizio continuo di una funzione direttiva, per non parlare del fatto che la carica consolare era aperta anche a molti che non erano militari di professione e non avevano esperienza di combattimento, ma semmai erano più rotti alle battaglie politiche… Nel periodo repubblicano, Roma pagò a carissimo prezzo questa grave criticità del suo sistema di comando: è sufficiente pensare alla seconda guerra punica, quando consoli di scarsa o nulla capacità militare si trovarono alle prese con uno dei più grandi condottieri della storia, il cartaginese Annibale, il quale inflisse loro sconfitte devastanti come quelle del Trasimeno (217 a. C.) o di Canne (216 a.C.). In circostanze del genere, peraltro, ebbe modo di emergere il grande pragmatismo romano e il sistema consolare di comando, di fronte a una minaccia mortale per le sorti della Repubblica, venne rapidamente abbandonato in favore della scelta di un capo che potesse garantire doti militari elevate e continuità di esercizio delle medesime. Nella circostanza, tale capo fu Scipione, detto successivamente l’Africano, il vincitore di Annibale nella battaglia di Zama (202 a.C.).

   La seconda carenza dell’organizzazione militare romana era invece data dal fatto che le continue e sempre più lunghe guerre stavano rendendo vieppiù impraticabile il sistema della coscrizione dei soli cittadini possidenti. Non era possibile, infatti, tenere lontani dalle proprie case, per anni, persone che spesso avevano famiglia e che, in un’economia quasi esclusivamente agricola, venivano in tal modo sottratte alla cura dei campi, con gravi danni per il sistema produttivo in generale. Per non parlare del fatto che questi cittadini-soldati anelavano a fare ritorno al più presto alle loro case e ai loro affetti.

   Fu Gaio Mario, tra il 107 e il 104 a.C., a far entrare nelle file dell’esercito molti proletari, equipaggiati a spese dello Stato, regolarmente pagati e autorizzati a fare bottino di guerra, nel caso se ne presentasse l’opportunità. Questa decisione segnò l’inizio della transizione ad un sistema militare di tipo professionale: coloro che si arruolavano in questa forma volontaria erano tenuti a prestare servizio per 16 anni e, se riuscivano ad arrivare al termine della ferma (cosa non facile, stanti le frequenti campagne), avevano diritto ad una pensione e all’assegnazione di un appezzamento di terra.

   Le riforme di Mario, tuttavia, non si limitarono a questo, ma riguardarono anche l’organica e la tattica: gli effettivi delle legioni vennero portati a 6-7.000 uomini, che in genere tendevano a farne parte in forma permanente, ciò che contribuiva all’aumento dell’identità delle medesime e favoriva la nascita dello spirito di corpo. Sul piano tattico, invece, la legione non venne più divisa in manipoli, ma in coorti (unità di base forte di 600 uomini), ciò che consentì di aumentare ancora l’efficacia del binomio flessibilità-solidità operativa. La coorte, infatti, dava potenza e compattezza alla struttura della legione, rendendola più adatta a sostenere le battaglie campali contro eserciti numerosi e di ottimo livello quali quelli che le armate romane si trovavano ad affrontare sempre più di frequente.

   Con Mario, l’organizzazione militare di Roma repubblicana raggiunse il suo apogeo, come venne dimostrato dalla grande efficacia evidenziata nel corso delle guerre galliche e di quelle civili. Tuttavia, la crescente professionalizzazione dello strumento militare romano ebbe come conseguenza non trascurabile di spostare la fedeltà dei soldati dallo Stato repubblicano ai generali sotto il cui comando diretto essi erano posti. Il rapporto reciproco, infatti, divenne molto più solido: i generali si fidavano essenzialmente solo delle truppe che conoscevano o con le quali riuscivano a sviluppare un rapporto personale. Questa situazione, moltiplicata nei suoi effetti dalle guerre civili, ebbe in Giulio Cesare un grandissimo protagonista, non solo in termini di genio militare (unanimemente riconosciuto), ma anche del modo in cui riuscì a riformare una catena di comando che, fino a quel momento, era stata uno degli anelli deboli del sistema militare romano. Sotto questo punto di vista, è del tutto evidente che la professionalizzazione dell’esercito non poteva procedere disgiunta da quella del corpo ufficiali. Se in passato gli ufficiali superiori dell’esercito romano erano stati, in buona misura, degli uomini politici prestati per periodi più o meno lunghi al mestiere delle armi, con Cesare la professionalizzazione degli alti gradi crebbe al pari (se non in misura superiore) di quella dei legionari, fino a raggiungere livelli di assoluta eccellenza. Solido nei suoi componenti di base – i legionari – e ben comandato, l’esercito romano si trasformò così in quella potente macchina da guerra capace di lasciare un’impronta indelebile sulla storia del mondo.

   Com’è ovvio, dietro uno strumento militare così efficiente c’era un’ideologia ben precisa, che potrebbe essere riassunta con la nota frase «si vis pacem para bellum» (“se vuoi la pace, prepara la guerra”). Anche se si tratta di parole mutuate, in forma relativamente libera, da un passo di un noto autore militare romano di epoca posteriore (metà del V secolo d.C.), Vegezio, essa è passata alla storia perché mostra con chiarezza il binomio su cui Roma repubblicana (e – lo vedremo presto – anche quella imperiale) si preoccupò di fondare il proprio sistema di potere: dissuasione e deterrenza. Il “preparare” la guerra, tenendo sempre pronto e perfettamente addestrato un grande esercito, era un modo assolutamente eloquente per dissuadere qualsiasi potenziale nemico dal nutrire propositi ostili; al tempo stesso, la disponibilità di tale potente macchina militare esercitava, a carico degli avversari, reali o presunti che fossero, un’efficace azione di deterrenza. In tal modo, nella concezione romana, era molto più facile mantenere la pace, senza contare il fatto che poter contare su un così poderoso strumento autorizzava a nutrire anche meno miti pensieri, come quello di utilizzarlo ovunque possibile per creare quella che veniva chiamata la pax romana e che consisteva in una pace imposta a tutti coloro che non erano disposti ad accettare il primato di Roma in forme meno conflittuali. Una nuova potenza era nata, pronta per costruire un impero.
                                    Piero Visani