domenica 15 settembre 2013

Storia della guerra - 3 - Il mondo romano: la Repubblica


3. Il mondo romano – La repubblica

   Il passaggio più naturale, procedendo a volo d’uccello come stiamo facendo in questa serie di brevi scritti, è ovviamente quello dal mondo greco a quello romano. Abbiamo scelto tuttavia di dividere la trattazione in due parti, una dedicata al periodo repubblicano e l’altra a quello imperiale, onde evitare un eccesso di sintesi.

   In origine, proprio come nelle città-Stato della Grecia, l’esercito romano, composto da tutti coloro che disponevano di un censo e avevano la possibilità di pagarsi l’armamento, veniva formato solo quando la situazione politico-militare lo richiedeva, e combatteva le sue battaglie basandosi sulla potenza della massa, proprio come aveva fatto e stava facendo la falange greca. Ben presto, però, le condizioni stesse del territorio italiano persuasero la dirigenza militare romana del fatto che si rendeva necessaria un’organizzazione più flessibile, più adatta ad adeguarsi ad un terreno rotto, sovente montuoso, dove un apparato militare operante eccessivamente a massa sarebbe stato alla mercé di qualsiasi avversario. Su questo sfondo nacque il primo abbozzo di legione romana, formata dai veliti (i cittadini più giovani, più poveri e dotati di conseguenza di armamento più leggero, i quali stavano davanti allo schieramento e svolgevano compiti di fanteria leggera), dagli astati (anch’essi giovani e vigorosi, ma provvisti di armamento più pesante e in grado di formare le prime file dello schieramento legionario), dai principi (uomini più maturi, con esperienza bellica, destinati a formare il nucleo centrale della legione) e infine dai triari (veterani induriti dalle campagne, esperti ma ovviamente non più vigorosi come i loro commilitoni).

   Il pregio principale della legione era la sua grande flessibilità tattica, che le permetteva di adeguarsi alle situazioni operative più diverse. L’unità di base che la componeva – il manipolo, forte di circa 200 uomini – poteva essere rapidamente staccato e altrettanto celermente riattaccato al nucleo centrale dello schieramento legionario, con ottimi risultati: potenza e massa, infatti, si abbinavano nel migliore dei modi alla capacità di essere efficaci nelle più disparate condizioni tattiche.

   Anche l’armamento dei soldati romani era una testimonianza di tale capacità di fare propri sistemi d’arma di cui si era verificata, magari a proprie spese, l’efficacia sul campo di battaglia: dai Galli era stato preso ad esempio lo scudo, dai Sanniti il giavellotto, dagli Iberici il gladio, dai Greci e dai Cartaginesi le armi della cavalleria e le macchine da assedio. L’esercito romano, di conseguenza, era fornito di quanto di meglio era tecnicamente disponibile all’epoca.

   Oltre a ciò, la disciplina era tenuta con estremo rigore, un rigore che spesso sfociava nella brutalità a carico di non fosse pronto nell’adeguarvisi, mentre l’addestramento era estremamente curato, sia a livello individuale sia per quanto concerneva i movimenti tattici.

   Le carenze, tuttavia, non mancavano. La prima e forse più grave era il sistema di comando. L’alternanza dei consoli impediva infatti l’esercizio continuo di una funzione direttiva, per non parlare del fatto che la carica consolare era aperta anche a molti che non erano militari di professione e non avevano esperienza di combattimento, ma semmai erano più rotti alle battaglie politiche… Nel periodo repubblicano, Roma pagò a carissimo prezzo questa grave criticità del suo sistema di comando: è sufficiente pensare alla seconda guerra punica, quando consoli di scarsa o nulla capacità militare si trovarono alle prese con uno dei più grandi condottieri della storia, il cartaginese Annibale, il quale inflisse loro sconfitte devastanti come quelle del Trasimeno (217 a. C.) o di Canne (216 a.C.). In circostanze del genere, peraltro, ebbe modo di emergere il grande pragmatismo romano e il sistema consolare di comando, di fronte a una minaccia mortale per le sorti della Repubblica, venne rapidamente abbandonato in favore della scelta di un capo che potesse garantire doti militari elevate e continuità di esercizio delle medesime. Nella circostanza, tale capo fu Scipione, detto successivamente l’Africano, il vincitore di Annibale nella battaglia di Zama (202 a.C.).

   La seconda carenza dell’organizzazione militare romana era invece data dal fatto che le continue e sempre più lunghe guerre stavano rendendo vieppiù impraticabile il sistema della coscrizione dei soli cittadini possidenti. Non era possibile, infatti, tenere lontani dalle proprie case, per anni, persone che spesso avevano famiglia e che, in un’economia quasi esclusivamente agricola, venivano in tal modo sottratte alla cura dei campi, con gravi danni per il sistema produttivo in generale. Per non parlare del fatto che questi cittadini-soldati anelavano a fare ritorno al più presto alle loro case e ai loro affetti.

   Fu Gaio Mario, tra il 107 e il 104 a.C., a far entrare nelle file dell’esercito molti proletari, equipaggiati a spese dello Stato, regolarmente pagati e autorizzati a fare bottino di guerra, nel caso se ne presentasse l’opportunità. Questa decisione segnò l’inizio della transizione ad un sistema militare di tipo professionale: coloro che si arruolavano in questa forma volontaria erano tenuti a prestare servizio per 16 anni e, se riuscivano ad arrivare al termine della ferma (cosa non facile, stanti le frequenti campagne), avevano diritto ad una pensione e all’assegnazione di un appezzamento di terra.

   Le riforme di Mario, tuttavia, non si limitarono a questo, ma riguardarono anche l’organica e la tattica: gli effettivi delle legioni vennero portati a 6-7.000 uomini, che in genere tendevano a farne parte in forma permanente, ciò che contribuiva all’aumento dell’identità delle medesime e favoriva la nascita dello spirito di corpo. Sul piano tattico, invece, la legione non venne più divisa in manipoli, ma in coorti (unità di base forte di 600 uomini), ciò che consentì di aumentare ancora l’efficacia del binomio flessibilità-solidità operativa. La coorte, infatti, dava potenza e compattezza alla struttura della legione, rendendola più adatta a sostenere le battaglie campali contro eserciti numerosi e di ottimo livello quali quelli che le armate romane si trovavano ad affrontare sempre più di frequente.

   Con Mario, l’organizzazione militare di Roma repubblicana raggiunse il suo apogeo, come venne dimostrato dalla grande efficacia evidenziata nel corso delle guerre galliche e di quelle civili. Tuttavia, la crescente professionalizzazione dello strumento militare romano ebbe come conseguenza non trascurabile di spostare la fedeltà dei soldati dallo Stato repubblicano ai generali sotto il cui comando diretto essi erano posti. Il rapporto reciproco, infatti, divenne molto più solido: i generali si fidavano essenzialmente solo delle truppe che conoscevano o con le quali riuscivano a sviluppare un rapporto personale. Questa situazione, moltiplicata nei suoi effetti dalle guerre civili, ebbe in Giulio Cesare un grandissimo protagonista, non solo in termini di genio militare (unanimemente riconosciuto), ma anche del modo in cui riuscì a riformare una catena di comando che, fino a quel momento, era stata uno degli anelli deboli del sistema militare romano. Sotto questo punto di vista, è del tutto evidente che la professionalizzazione dell’esercito non poteva procedere disgiunta da quella del corpo ufficiali. Se in passato gli ufficiali superiori dell’esercito romano erano stati, in buona misura, degli uomini politici prestati per periodi più o meno lunghi al mestiere delle armi, con Cesare la professionalizzazione degli alti gradi crebbe al pari (se non in misura superiore) di quella dei legionari, fino a raggiungere livelli di assoluta eccellenza. Solido nei suoi componenti di base – i legionari – e ben comandato, l’esercito romano si trasformò così in quella potente macchina da guerra capace di lasciare un’impronta indelebile sulla storia del mondo.

   Com’è ovvio, dietro uno strumento militare così efficiente c’era un’ideologia ben precisa, che potrebbe essere riassunta con la nota frase «si vis pacem para bellum» (“se vuoi la pace, prepara la guerra”). Anche se si tratta di parole mutuate, in forma relativamente libera, da un passo di un noto autore militare romano di epoca posteriore (metà del V secolo d.C.), Vegezio, essa è passata alla storia perché mostra con chiarezza il binomio su cui Roma repubblicana (e – lo vedremo presto – anche quella imperiale) si preoccupò di fondare il proprio sistema di potere: dissuasione e deterrenza. Il “preparare” la guerra, tenendo sempre pronto e perfettamente addestrato un grande esercito, era un modo assolutamente eloquente per dissuadere qualsiasi potenziale nemico dal nutrire propositi ostili; al tempo stesso, la disponibilità di tale potente macchina militare esercitava, a carico degli avversari, reali o presunti che fossero, un’efficace azione di deterrenza. In tal modo, nella concezione romana, era molto più facile mantenere la pace, senza contare il fatto che poter contare su un così poderoso strumento autorizzava a nutrire anche meno miti pensieri, come quello di utilizzarlo ovunque possibile per creare quella che veniva chiamata la pax romana e che consisteva in una pace imposta a tutti coloro che non erano disposti ad accettare il primato di Roma in forme meno conflittuali. Una nuova potenza era nata, pronta per costruire un impero.
                                    Piero Visani