giovedì 19 settembre 2013

Storia della guerra - 5: L'impero bizantino


5. L’impero bizantino

   È possibile gestire il declino di un impero addirittura per un millennio, facendo ricorso ad un’abile combinazione tra superiorità tecnologica in campo militare, astuzia diplomatica e relativa prosperità economica? La domanda, tanto cara – non a caso... – agli strateghi occidentali odierni, consente una risposta positiva: se c’è riuscito l’impero bizantino, perché non potrebbe riuscirci l’Occidente (inteso nell’accezione classica, con gli Stati Uniti in posizione dominante e l’Europa in condizione subalterna), che peraltro sta provando a farlo già da tempo?

   Com’è noto, l’impero romano d’Occidente cadde nel 476 dopo Cristo, ma il suo omologo d’Oriente (con capitale Bisanzio e dunque conosciuto come impero bizantino) sopravvisse fino al 1453, dando prova di una straordinaria longevità. Al momento della grandi invasioni barbariche, la parte orientale dell’impero romano era quella economicamente più prospera e che aveva mantenuto una maggiore solidità dell’apparato statale. Di conseguenza, non solo non fu travolta dagli attacchi delle popolazioni che per convenzioni sono dette barbariche, ma riuscì a rimanere la maggiore potenza di quella parte del mondo almeno fino al sacco di Costantinopoli ad opera dei Crociati (1204) e a sopravvivere poi ancora per 250 anni, fino alla sua caduta ad opera dei Turchi ottomani.

   Questo straordinario esempio di longevità da parte di una costruzione imperiale fu dovuto, in larga misura, ad una efficace combinazione di fattori. Si è già detto, ad esempio, della solidità istituzionale ed economica dell’impero romano d’Oriente al momento del crollo di quello d’Occidente. Tale solidità strutturale, tuttavia, non sarebbe stata sufficiente se l’impero bizantino non avesse potuto contare su un apparato militare efficiente, su una tecnologia militare all’avanguardia e su una visione strategica ispirata alla difensiva, essenzialmente intesa, cioè, a garantire la perpetuazione dell’impero a dispetto dei suoi numerosi nemici.

   L’apparato militare, per cominciare, era ricalcato sull’organizzazione politico-amministrativa, denominata “tema”, e – come tale – permetteva al potere centrale di reclutare una parte consistente del proprio esercito su base locale, mentre il nucleo centrale delle forze, denominato “tarmata”, era dislocato nei dintorni della capitale. In tal modo, fu possibile ottenere una buona amalgama tra componente militare a reclutamento locale e componente professionale, dove era rilevante la presenza di mercenari.

   In secondo luogo, dottrina e tecnologia militare furono oggetto di un’attenzione che aveva scarsi precedenti nel mondo romano, che aveva combattuto a lungo contro i propri nemici, ma in una logica ben diversa da quella della mera sopravvivenza. A Bisanzio, per contro, la classe dirigente era ben consapevole del fatto che, per affrontare nemici che premevano da varie direzioni, occorreva poter contare su un sistema militare che fosse, sotto ogni aspetto, superiore a quello degli avversari. Da ciò derivò un’attenzione senza precedenti agli aspetti dottrinali della guerra, con un fiorire di pubblicazioni sui problemi tattici e strategici del conflitto che diventarono l’indispensabile patrimonio cognitivo di chiunque facesse parte del corpo ufficiali. Il che non era sorprendente, se l’esistenza dello Stato dipendeva in modo totale dalle capacità delle sue forze militari.

   A livello operativo, la consapevolezza che i nemici dell’impero erano in grado di mettere in campo eserciti numericamente assai superiori, indusse gli strateghi bizantini non solo a sviluppare una visione essenzialmente difensiva, basata sull’economia delle forze (nessun generale poteva permettersi il lusso di sprecare in battaglia le vite dei propri soldati e, per contenere le perdite, venne addirittura sviluppato un rudimentale servizio sanitario) e su un solido sistema di piazzeforti e fortificazioni di vario tipo, ma li indusse altresì a cercare di sviluppare quei fattori tecnico-tattici che potessero consentire ai loro eserciti di sopperire ad una costante inferiorità numerica.

   Sul piano tattico, poiché le armate dei nemici dell’impero erano costituite per lo più da orde di cavalieri, grande attenzione venne rivolta alla sviluppo della cavalleria catafratta, vale a dire di una cavalleria pesante, armata di lancia e arco, i cui componenti erano dotati di robuste armature, così come protetti da armature erano pure i loro cavalli. In questo modo l’esercito bizantino poteva disporre di una forza d’urto da utilizzare a massa, la quale, in virtù di un abile impiego tattico, poteva sempre dimostrarsi superiore ai propri nemici nel punto di gravità di ogni battaglia.

   Sul piano tecnologico, tuttora oggetto di controversie tra gli storici è la questione dell’impiego, da parte bizantina, del “fuoco greco”, vale a dire di un materiale incendiario che non era certo ignoto ai contemporanei, ma che i bizantini impiegarono massicciamente e con ottimi risultati, anche e soprattutto in ambito navale. Taluni storici hanno sostenuto la tesi che il “fuoco greco” fosse il risultato dell’accensione di sostanze come nafta o zolfo e calce viva. I bizantini, che mantennero sempre una coltre di segreto intorno alla sua reale composizione, lanciavano tale miscuglio infuocato sotto forma di proietti incendiari, mediante sifoni di ottone, usando come propellente acqua pompata dal mare. Il risultato doveva essere piuttosto significativo, se la memoria di quest’ “arma speciale” è giunta fino a noi circonfusa da un’aura di invincibilità, di superiore – e decisiva – efficienza tecnologica.

   Ma non è tutto, poiché la guerra conobbe altre importanti trasformazioni durante il periodo bizantino, essenzialmente sotto il profilo culturale. Durante l’epoca romana, infatti, la gestione del conflitto era stata improntata, così come era avvenuto nel periodo greco, essenzialmente come uno scontro frontale, ispirato ad una logica di contrapposizione aperta dove c’era poco o punto spazio per qualsiasi forma di astuzia, di inganno deliberato del nemico. La guerra era un terreno di confronto di valori virili, ispirati ad un’etica guerriera, dove chi combatteva disdegnava certe pratiche che oggi definiremmo “trasversali” e dove la vittoria era frutto di un confronto leale. Nel periodo bizantino, per contro, questa visione subì un ridimensionamento: per un impero che doveva soprattutto sopravvivere e che non disponeva di un potenziale umano da poter sprecare in conflitti sanguinosi, la guerra psicologica, i tentativi di confondere il nemico, il ricorso all’inganno, l’abile miscela tra potenza militare e arte diplomatica si fusero nell’elaborazione di una concezione nuova, molto più complessa e articolata, dove il semplice valore sul campo non era più l’unico fattore da prendere in considerazione. A ciò si deve aggiungere – e la cosa conferisce a questo quadro un ulteriore tocco di modernità – il fatto che l’affermarsi dell’Islam inserì in questo contesto un’altra dimensione ancora, quella della guerra di religione contro un nemico che aveva un altro Dio e ispirava la propria condotta a un differente universo di valori.

   Come si può notare, dunque, ci sono alcune significative affinità tra l’impero bizantino e la realtà attuale; affinità che, tuttavia, non possono e non devono essere sopravvalutate, in quanto ogni epoca fa storia a sé. Quello che è importante sottolineare, semmai, è la flessibilità di cui la classe dirigente politico-militare bizantina diede prova nel momento in cui si trovò ad affrontare nutrite e sempre diverse schiere di nemici. Ad esempio, quando la rapida diffusione dell’Islam mise gli eserciti bizantini alle prese con quelli arabi, basati su masse di cavalleria leggera, i catafratti subirono una riorganizzazione che consentì loro di poter fronteggiare efficacemente i nuovi nemici sulla base di un dispositivo tattico meno rigido.

   Per quasi un millennio, dunque, l’esercito bizantino costituì il nerbo di un impero che cercava di sopravvivere e di mantenersi potente in un mondo ricco di insidie. Fino a che fu possibile preservare una qualche forma di equilibrio tra le forze a reclutamento locale e i reparti mercenari, la sua efficacia operativa fu garantita. Quando però tale equilibrio si dissolse e la componente mercenaria (spesso straniera) divenne sempre più importante, si manifestarono gli stessi problemi che avevano causato la crisi dell’impero romano d’Occidente: scarsa propensione al combattimento, esigenze economiche sempre crescenti, mancanza assoluta di disciplina, propensione alla sedizione. Naturalmente, non fu questa l’unica causa della caduta di Bisanzio, dal momento che l’impero romano d’Oriente aveva ormai esaurito il suo ciclo e la sua stessa funzione storica, ma certo fu una delle cause, e non delle meno importanti.

   Quello che a noi interessa porre in rilievo, in questa sede, è che nel periodo di Bisanzio la guerra si arricchì di dimensioni nuove, nessuna delle quali era ovviamente priva di precedenti, ma che forse non si erano mai trovate contemporaneamente fuse: aspetti tecnici, aspetti culturali, dinamiche politiche e psicologiche stavano arricchendo la natura del conflitto e conferendogli sempre maggiore complessità, in linea con l’evoluzione del resto della società. La guerra non era mai stata – e mai avrebbe potuto essere – un fenomeno esclusivamente tecnico, ma ora si stava complicando vieppiù, coinvolgendo fattori che in passato le erano stati solo parzialmente propri. Si era innescata una dinamica che prosegue ancora oggi.
                                    Piero Visani