lunedì 23 settembre 2013

Tempeste d'acciaio


   Per chi – come chi scrive – l’attrazione per le cose militari risale alla prima infanzia, in termini da poter essere definiti, parafrasando Hillman, “un terribile interesse per la guerra”, inspiegabile se non facendo riferimento a vite precedenti, l’incontro in età giovanile con un libro come Tempeste d’acciaio di Ernst Jünger è stato un appuntamento cruciale. C’era infatti bisogno di qualcosa e di qualcuno che mi aiutasse a sciogliere alcuni nodi concettuali, che mi servisse a comprendere, in un periodo della vita in cui mancano ancora strumenti interpretativi adeguati, in che cosa consistesse la mia personale diversità rispetto al blando pacifismo diffuso nella società italiana degli anni Sessanta.

   Lo acquistai per caso, su una bancarella di libri usati, attratto soprattutto dal titolo, dato che dell’autore, all’epoca, sapevo davvero poco. E fu quasi un’eccezione, visto che le mie preferenze di lettura andavano (allora come ora) alla saggistica. Quanto lessi nella prima pagina mi fece capire che si sarebbe trattato di un libro interessante: «Cresciuti in un secolo di sicurezza e di certezze, sentivamo tutti la nostalgia dell’insolito, del grande pericolo. Allora smaniavamo per la guerra». Io, nato pochi anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale, non smaniavo per la guerra, ma sentivo l’attrazione per il “grande pericolo”, così come me l’aveva descritto mio nonno materno in lunghi racconti delle sue esperienze sul Carso e come lo vedevo rappresentato in mio zio, ardito, combattente di Abissina e di Spagna, paracadutista della “Folgore” preso prigioniero ad El Alamein nel’ottobre 1942. In maniera confusa, ma forte, sentivo che a me mancava quell’esperienza che Alan D. Altieri ha brillantemente sintetizzato nella formula “andare dentro” e invidiavo chi – come mio zio – l’aveva fatto volontariamente.

   Sotto questo profilo, la lettura di Tempeste d’acciaio è quasi un percorso di formazione, compiuto per di più in compagnia di un uomo che non solo è uno dei pilastri della cultura del Novecento, ma – fatto che nel mio personale metro delle cose rimane a tutt’oggi più importante – è anche uno dei pochissimi tedeschi che, nella lunga e brillante storia militare del suo Paese, ha saputo meritare una decorazione ambitissima come la croce Pour le mérite (appena 5.430 assegnazioni dal 1740 al 1918).

   Chi si aspetta di trovare in Tempeste d’acciaio l’acritica esaltazione di una personale esperienza bellica, magari intrisa di reducismo e di un tocco di autocompiacimento per quanto fatto in battaglia, è completamente fuori strada. Il libro è semmai il resoconto di un itinerario personale dagli esiti per nulla scontati. La vulgata dominante in materia, esclusa la trappola del reducismo, vorrebbe che un’opera del genere rappresentasse l’esito classico del divario tra teoria e realtà, dunque tra i furori bellicisti di una generazione cresciuta nei miti del nazionalismo e dell’imperialismo e la tragica realtà della guerra, con il suo carico di sangue, morte, sofferenze, mutilazioni, fino alla “naturale” conclusione del rinnegare le proprie illusioni giovanili ed il tranquillizzante approdo ad un pacifismo “politicamente corretto”. Niente di tutto questo. L’itinerario personale c’è e consiste in una descrizione per nulla agiografica del conflitto, con le sue violenze e le sue distruzioni («Quel luogo era il regno assoluto della sofferenza ed io,…, guardai come attraverso una fessura infermale nei suoi abissi), ma accompagnata da un’incredibile capacità di essere al tempo stesso dentro e fuori ciò che accade. Il pluridecorato combattente Jünger è “dentro” la battaglia e – la prima volta che ciò accade – non ha difficoltà a dichiarare che ciò lo riempie «di una gioia pazzesca»; lo scrittore ne è “fuori”, la guarda dall’alto, ne studia gli effetti su di sé e sugli altri uomini.

   È una guerra relativamente cavalleresca, almeno negli intenti di fondo, quella che viene combattuta sul fronte occidentale nel 1914-18, ma tende rapidamente ad evolvere in una “battaglia di materiali” (Materialschlacht), dove le virtù individuali cedono il posto allo scontro tra sistemi produttivi. Su questo sfondo, gli spazi per i singoli si restringono, ma non scompaiono; anzi, si forgia una comunità di guerrieri che del combattimento conosce più «l’esaltazione del cacciatore» che «l’angoscia della preda». Una comunità legata da vincoli solidissimi, animata da un’assoluta lealtà reciproca, forgiata emotivamente dal suo desiderio di “vivere di più”, capace di provare sensazioni difficilmente descrivibili o da risultare – se descritte – incomprensibili ai più: «In quegli attimi non mi prese affatto la paura, ma ebbi la sensazione, quasi demoniaca, di una estrema leggerezza; ogni tanto mi assalì anche un riso convulso, che non riuscivo in alcun modo a frenare». Un sentimento difficile da spiegare e che ai più potrebbe apparire altamente inquietante, ma che Jünger chiarisce con estrema naturalezza: «Quegli uomini erano animati da qualcosa che non negava l’atrocità della guerra, ma la spiritualizzava, una voglia autentica di affrontare il pericolo, il desiderio cavalleresco di vincere la propria battaglia. Nel corso di quattro anni, il fuoco forgiò combattenti sempre più puri e audaci».

   Un’esperienza estrema, dunque, anzi quasi un percorso esoterico. Ma non fine a se stesso, bensì fondamentale per il conflitto ed i suoi esiti, dal momento che, «per quanto colossali fossero le masse di uomini e di materiali, il lavoro, nei punti decisivi, era sempre portato a termine da pochi uomini» coraggiosi e disposti ad andare fino in fondo nell’assolvimento del loro compito. Ritorna dunque con forza, quanto più il conflitto si protrae, il concetto di una comunità di guerrieri, i «principi delle trincee» forgiata nel ferro e nel fuoco, oltre che nel sangue, dalla quale scaturisce un insegnamento fondamentale, quello per cui «…non si conosce nessuno se non lo si è visto nel pericolo».

   Malgrado tutti questi sforzi, le sorti del conflitto, per la Germania guglielmina, volgono al peggio, anche se la chiusura delle ostilità sul fronte orientale consente di concentrare su quello occidentale tutte le risorse ancora disponibili per un’ultima disperata offensiva, con la quale ribaltare la situazione. In una circostanza del genere, quando l’entità della posta in gioco è altissima, non c’è spazio per la paura, ma solo per i guerrieri: «Nell’avanzare, un terribile furore bellico s’impadronì di noi tutti. Una smania incontenibile di uccidere accelerava i miei passi. Avevo in corpo una tale rabbia che mi fece piangere. L’immensa volontà di distruzione che pesava su quel campo di morte si concentrava nei cervelli, avvolgendoli in una rossa nebbia. Singhiozzando e balbettando ci scambiavano frasi senza senso e uno spettatore non prevenuto avrebbe certo immaginato che fossimo sul punto di soccombere ad un eccesso di felicità».

   Sono parole forti, straordinariamente forti, ma anche terribilmente sincere, e non privano certo chi le ha scritte di una dimensione di umanità, se lo stesso Jünger, guardando il corpo di un giovane inglese da lui ucciso, scrive: «Lo Stato che si solleva dalla responsabilità [per il comportamento dei combattenti in guerra], non ci può liberare dalla tristezza; la dobbiamo sopportare fino in fondo, sin nelle profondità dei nostri sogni».

   Personalmente poco incline alle verità rivelate, quali che siano, la lettura giovanile di Tempeste d’acciaio mi ha ulteriormente rafforzato nelle mie convinzioni e mi ha persuaso del fatto che persino un fenomeno estremo come la guerra possa essere oggetto di interpretazioni “altre” rispetto a quelle correnti e banalissime propugnateci ogni giorno dalla cultura dominante. La guerra che emerge dalle pagine di Jünger è certamente una “festa crudele”, ma è anche qualcosa di infinitamente superiore, è un’esperienza iniziatica che, se nelle sue forme più rarefatte appare riservata a soggetti raffinati come lo scrittore tedesco, nelle sue forme più generali è la cartina di tornasole di quanto di meglio (e anche di peggio) possa offrire un popolo.

   Viviamo in una civiltà anestetizzata, dove le uniche sensazioni forti ammesse sono quelle della “violenza rappresentata” in ambito mediatico e dove tale rappresentazione ha raggiunto estremi talmente marcati che occorre perfino chiedersi – e in taluni casi non sarebbe neanche infondato a livello molto concreto – se dietro la rappresentazione ci sia violenza vera, o soltanto un impiego artificioso e strumentale della medesima. A livello ufficiale, la violenza non esiste o, più correttamente, è la peggior forma relazionale possibile, la più deprecata, la più stigmatizzata. Eppure, se usciamo dalla dimensione mediatica e entriamo in quella reale, ci accorgiamo che non di semplice rappresentazione si tratta, ma di un qualcosa che possiamo toccare concretamente con mano e alla quale non ci possiamo in alcun modo sottrarre, ma che siamo obbligati a subire. Viene di continuo agitato su di noi lo spettro della più oscura e terribile delle violenze, quella terroristica, ma la reazione ad essa varia dall’inanità totale all’aggressività cieca e senza senso.

   Il fatto è che per troppo tempo la cultura dominante in Occidente (termine che mi repelle quasi fisicamente) ci ha spiegato che la violenza è insensata e, ora che l’Occidente stesso ne è pesantemente oggetto, non può negare le sue premesse, ma deve puntare sulle guerre “asettiche” dei bombardamenti a distanza, sulle guerre “segrete” delle forze speciali o su quelle “per procura” degli Stati clienti. Le “tempeste d’acciaio”, oggi, non sono semplicemente ammissibili. Potrebbero far sorgere, in chi le combatte, cattivi pensieri e “inaccettabili” interrogativi. Potrebbero indurre il “consumatore indifferenziato” ad “andare dentro”, e non necessariamente solo nei supermercati. Potrebbero far nascere una nuova comunità di guerrieri. Non sia mai. Ma siamo vicini ad "albe tragiche", non necessariamente dorate, e dobbiamo con forza sperare nell'eterogenesi dei fini; anzi, dobbiamo darci da fare per determinarla.

                                                                              Piero Visani

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