giovedì 31 ottobre 2013

Storia della guerra - 19: L'ascesa dell'impero napoleonico


   Nella primavera del 1796, quando Napoleone Buonaparte – un oscuro generale di origine corsa, noto al più per essere il fresco sposo di Giuseppina Beauharnais, amante del membro più autorevole del Direttorio al potere a Parigi, Paul Barras – assunse il comando dell’Armata d’Italia, nulla lasciava presagire l’inizio di una straordinaria avventura che ha impresso un marchio indelebile sulla storia della guerra. L’esercito destinato ad attaccare gli austro-piemontesi nella pianura Padana era la classica armata rivoluzionaria formata da elementi di mestiere e volontari animati da furore ideologico, ma nessuna vittoria sarebbe stata colta se, alla testa di quegli uomini, non ci fosse stato uno dei massimi geni militari di tutti i tempi.

   Tutti i fattori necessari ad un radicale salto di qualità nell’evoluzione del conflitto erano già presenti – e ne abbiamo parlato nell’articolo dedicato alla Rivoluzione francese – ma ancora mancava colui che li mescolasse, li amalgamasse e producesse una nuova sintesi. Napoleone fu l’artefice di questa straordinaria trasformazione, che risultò molto più grande dal punto di vista strategico e operativo di quanto non lo fu, per contro, sul piano tattico.

   Accanito lettore della migliore produzione dottrinale del suo tempo, a cominciare dagli scritti del Guibert, nonché attento esegeta di tutte le principali opere di arte bellica della storia, il generale Buonaparte aveva sicuramente sviluppato, quanto meno a livello teorico, un proprio sistema di guerra. La sua grande dote fu quella di riuscire a metterlo concretamente in pratica. Figlio della Rivoluzione, aveva una concezione del tempo e della rapidità di movimento decisamente diversa da quella dei suoi nemici, abituati alle mollezze dell’Ancien Régime. Fin dai suoi esordi come comandante di eserciti, quindi, egli si preoccupò di colpire duro, in fretta e in profondità, gli eserciti nemici. Fin dall’inizio ebbe chiaro che la guerra – qualunque guerra – poteva essere vinta solo se si riusciva ad abbattere, nel più breve tempo possibile, la volontà di combattimento del nemico e, per ottenere un risultato del genere, l’unica concreta possibilità disponibile era data dall’annientamento delle forze avversarie: non l’assedio di una o più piazzeforti, non l’occupazione di taluni territori, non la conquista della capitale, ma solo ed esclusivamente la distruzione dell’esercito nemico.

   Questo fu l’obiettivo costantemente perseguito negli anni dell’ascesa e della stabilizzazione del potere napoleonico, che possono essere collocati tra il 1796 e il 1806 (dunque fino alla battaglia di Jena) per la fase ascendente, e tra il 1807 e il 1809 per quella di stabilizzazione (dunque fino alla battaglia di Wagram). In tale periodo, le componenti essenziali dei suoi straordinari successi furono, in primo luogo, la disponibilità di uno strumento militare eccellente, animato da un professionismo, uno spirito di corpo e uno slancio rivoluzionario che non vennero mai meno neppure quando la proclamazione dell’impero (2 dicembre 1804) riportò la Francia nel novero delle monarchie europee, sia pure con una struttura assai diversa da tutte le altre; in secondo luogo, l’organizzazione modulare conferita a tale strumento, dapprima con la nascita – avvenuta già prima del 1796 – del sistema divisionale e poi con quella – questa sì tipicamente napoleonica – dei corpi d’armata, piccoli eserciti assolutamente autonomi, formati da reparti di tutte le armi, che in genere venivano fatti muovere divisi e poi concentrati per arrivare a combattere uniti sul campo di battaglia. Fu questa organizzazione modulare a consentire l’allestimento di una fitta e complessa trama di operazioni coordinate, costantemente intese a sconfiggere il nemico per mezzo della sorpresa strategica, da ottenere con il continuo ricorso alla manovra e anche ad espedienti per dissimulare i reali intenti della Grande Armée. Una rigida pianificazione centralizzata, al cui vertice c’era solo Buonaparte, sia pure assistito da uno Stato Maggiore molto efficiente, si concretizzava sul campo in un’esecuzione operativa fortemente decentrata, affidata ai migliori marescialli dell’Impero.

   Nei primi dieci anni di guerre napoleoniche, il ricorso a queste procedure consentì a Napoleone di acquisire un notevolissimo vantaggio sui suoi avversari, quasi che si stessero affrontando – e di fatto era così – uomini appartenenti a universi culturali e temporali diversi. Era la modernità che irrompeva, con i suoi ritmi pulsanti, là dove c’erano soltanto conservazione e immobilismo. Per non parlare del fatto che i soldati francesi si sentivano portatori di un grande rinnovamento politico e che, con il tempo, svilupparono un professionismo militare di altissimo livello. Il loro numero, poi, venne mantenuto costantemente elevato da una macchina di reclutamento perfettamente oliata, in grado di mettere a disposizione dell’imperatore grandi masse di uomini.

   Sul piano tattico, per contro, le innovazioni del sistema di guerra napoleonico furono decisamente inferiori a quelle prodotte sul piano strategico, ma la superiorità conseguita dal genio di Buonaparte a quest’ultimo livello fu, per un lungo periodo, più che sufficiente a occultare il fatto che, sul campo di battaglia, le differenze con il nemico fossero inferiori a quelle che si registravano in ambito strategico o di gestione di operazioni combinate.

   Il capolavoro strategico di Napoleone è probabilmente la manovra di Ulm, condotta contro il generale austriaco Mack nel 1805: come nei casi più brillanti del genio militare del Grande Corso, essa si compone di una manovra diversiva per disorientare il nemico e di una classica “manoeuvre sur les derrières”, tesa ad intercettare le linee di rifornimento dell’avversario e ad isolarlo dalle proprie basi per renderlo totalmente vulnerabile. Nel caso di Ulm, si trattò di una grande vittoria conseguita non con i fucili sul campo di battaglia ma con le gambe dei soldati in una serie di marce di aggiramento strategico e di accerchiamento. che consentirono di costringere il nemico alla capitolazione senza che si fosse mai reso necessario combattere uno scontro frontale. Tuttavia, anche nel caso in cui – come ad Austerlitz nel 1805, a Jena nel 1806 od a Friedland nel 1807 – si rese necessaria una grande battaglia, la vittoria fu sempre dei francesi a causa della superiorità del sistema molto aggressivo che avevano sviluppato sul piano tattico, con l’impiego della fanteria a massa, il forte supporto dell’artiglieria, il ricorso alle cariche di gigantesche unità di cavalleria in funzione di sfondamento, alla ricerca di un punto di gravità su cui concentrare lo sforzo offensivo, ottenere la rottura del fronte nemico e dilagare successivamente nelle sue retrovie.

   Il sistema napoleonico non era privo di imperfezioni, come venne evidenziato a Marengo (14 giugno 1800), dove gli austriaci si dimostrarono ben guidati ed efficaci nel combattimento; oppure ad Eylau (7-8 febbraio 1807), dove le difficili condizioni climatiche costrinsero l’imperatore a rinunciare alla manovra per puntare essenzialmente sulla massa d’urto al fine di aver ragione dell’avversario. Egli riuscì nella circostanza a prevalere, ma pagando un prezzo carissimo (circa 15.000 perdite), una situazione che prefigurava l’avvio di una fase nuova, quella della stabilizzazione del suo potere, che lo vide vittorioso in Spagna, nel 1808, contro gli eserciti locali e l’elusivo avversario inglese, che si sottrasse sempre a uno scontro decisivo, puntando su una strategia di logoramento, e anche in Austria nel 1809, con la vittoria di Wagram, ottenuta però nuovamente a un costo umano altissimo (circa 35.000 perdite).

   Con il passare del tempo e le continue guerre, del resto, la Grande Armée stava progressivamente esaurendo il proprio slancio, anche in considerazione del fatto che i grandi scontri di cui era stata protagonista avevano inciso pesantemente sul numero dei suoi effettivi e soprattutto sulla qualità dei medesimi e dei quadri. C’erano sempre nuove reclute, infatti, poiché il sistema di reclutamento francese funzionava a pieno ritmo, ma erano sempre più giovani e inesperte. I molti nemici di Napoleone, inoltre, avevano attentamente studiato il suo sistema di combattimento e stavano prendendo le opportune contromisure, per non parlare del fatto che la costante dilatazione territoriale dell’impero francese creava nuove ostilità contro di esso e sottoponeva gli eserciti dell’imperatore a un logoramento senza fine. Con una logica fin troppo nota alle vicende dell’umano divenire, i liberatori, i portatori dello spirito della Rivoluzione, erano diventati forze d’occupazione e, al tempo stesso, la costruzione imperiale aveva portato ad un risveglio delle identità nazionali, per cui i singoli popoli sopportavano con sempre maggiore difficoltà quello che percepivano come un giogo straniero.

   Abbigliati nelle loro rutilanti divise, esponenti di una tradizione militare che stava toccando vertici difficilmente eguagliabili, gli uomini della Grande Arméé avevano scritto con il sangue pagine di storia imperiture e parevano invincibili, ma le componenti fondamentali del sistema di guerra napoleonico stavano entrando in crisi, perché avevano raggiunto il loro apogeo. La stessa arte di comando dell’imperatore, del resto, stava perdendo flessibilità, in parallelo con il passare degli anni: sempre minore elasticità di manovra e sempre maggiore ricorso ad un impiego a massa che consumava risorse umane e materiali in termini e con un ritmo che l’impero francese non era in grado di reggere. Presto sarebbe iniziato l’inevitabile declino.

                                                                Piero Visani




mercoledì 30 ottobre 2013

Positività e negatività

       Poco meno di un anno fa, una mia amica, valente psicologa, da me consultata per cercare di comprendere le ragioni di un mio forte disagio esistenziale, mi consigliò di smettere di spendere la mia personale positività nella rincorsa di persone intrise di negatività, rifiuto, chiusura, diffidenza, ostilità, e di cambiare radicalmente metro, cercando di incrociarmi con soggetti positivi. Ella, in particolare, mi consigliò di affrancarmi da quella che definì la mia personale "coazione a ripetere", vale a dire a riprodurre, nel corso del tempo, lo stesso modello di approccio a persone non sbagliate in sé, ma sbagliate per me, in quanto intrise di negatività e non di positività.
       Rimasi perplesso, in un primo tempo, perché non ritenevo di essere affetto da quella specie di sindrome, anzi pensai perfino che la mia amica avesse esagerato. Tuttavia, proprio nel cuore dell'estate, un evento - una mia apertura incocciata per l'ennesima volta nell'ennesima chiusura a riccio - mi convinse che, se non aveva ragione lei, certo comunque dovevo cambiare io, perché non potevo continuare così, passando da una mortificazione all'altra, da una sconfitta all'altra, da un rifiuto all'altro. La mia "coazione a ripetere" andava immediatamente e drasticamente bloccata. Basta correre dietro a persone che volevano solo farmi del male, consapevolmente o meno.
       Stavo ancora riflettendo su quali nuove strategie adottare, dopo aver chiuso drasticamente con il mio passato, mettendolo completamente da parte, quando la sorte, il destino, la fortuna o l'"astuzia della Ragione" di hegeliana memoria mi hanno immerso, nel giro di pochi giorni, in una situazione completamente nuova, dove tutta la positività che da me scaturisce ha trovato un immediato riscontro in un'altra positività e non nella solita lunga lista di negatività e chiusure.
       Ho colto l'attimo fuggente, ho raccolto l'esortazione della mia amica psicologa a innovare, non a ripetere, ed eccomi immerso in una vita nuova, dove non sono residuale, ma centrale; dove non sono un "signor Nessuno", ma una persona che conta; dove i rapporti relazionali sono veri, non falsi o interessati.
       Non ho nulla da recriminare rispetto al passato o alle persone incontrate. Ciascuna di esse avrà fatto ciò che riteneva meglio. Piuttosto, prendo atto con soddisfazione di essermi affrancato dalla mia personale "coazione a ripetere" e di aver incontrato subito, con notevole fortuna, chi mi ha insegnato che un mondo pieno di "sì" e di sorrisi veri è assai meglio di un mondo pieno di "no", di sorrisetti falsi e di attenzioni interessate ma non vere. E le sono grato, infinitamente grato.
                                        Piero Visani
                   

lunedì 28 ottobre 2013

Skype

       Un volto, bene inquadrato. Un imbarazzo iniziale che presto diventa gioia, la gioia di vedersi. Uno strumento che, utilizzato mille volte per lavoro, ora assume una valenza privata, più intima, ancora abbastanza inesplorata, per me.
       Non amo granché il telefono, lo trovo un medium freddo, e ho sempre amato poco o punto Skype, valutandolo ancora più freddo, quasi algido.
       Ma è davvero così? Non è algore quello che sento ora quando lo uso, anzi è calore, entusiasmo, condivisione. Senza contare che un volto inquadrato nelle schermo di un notebook può nasconderti poco o nulla, non tanto in termini di pregi e difetti estetici, quanto in termini di espressività, di sfumature psicologiche, di luce che passa dietro gli occhi, di lampi che accendono il sorriso o lo sguardo. E che hanno su di te un forte effetto coinvolgente.
       Una persona vista dal vivo, al telefono è spesso un'altra persona, anche se cogliere le mille sfumature della sua voce è importante per sviluppare canali comunicativi alternativi e più profondi. Una persona vista dal vivo, su Skype è quasi lei, è quasi concreta, ha una propria consustanzialità che il telefono purtroppo le nega. E' lei, è viva, è davanti a te, vorresti anzi fare di tutto per abbattere quell'ultima barriera, per infrangere quell'ostacolo che ancora vi divide e che sembra quasi agevole da abbattere, fino a creare un contatto diretto, carnale.
       Naturalmente non lo è, ma, quando chiudi il collegamento Skype, il senso di deprivazione che ti coglie è più profondo di quello che ti coglie quando concludi una telefonata, poiché il contatto visuale è assai più profondo, intimo, complice. Un buon motivo per rinnovarlo, spesso.
 
                                             PieroVisani
 

Storia della Guerra - 18: La Rivoluzione Francese


   La guerre de la liberté doit être faite avec colère: queste parole, attribuite a un noto esponente giacobino come Louis-Antoine de Saint Just, vengono in genere utilizzate per riassumere il grande sconvolgimento che la Rivoluzione francese introdusse nell’evoluzione del conflitto. L’approccio è corretto, perché se non si guarda al versante politico-ideologico, non si riesce a comprendere l’estrema novità dell’innovazione rivoluzionaria. Al tempo stesso, tuttavia, è un approccio troppo unilaterale, che rischia di far perdere di vista altri fattori, non meno importanti.

   Sotto il profilo militare, così come su altri importanti versanti, la Rivoluzione del 1789 non si innestò sul niente, ma su un retroterra ben preciso, che era quello di un Paese che aveva digerito a fatica la dura sconfitta subita contro la Gran Bretagna durante la Guerra dei Sette Anni e che, dopo i primi segni di ripresa evidenziatisi in seguito alla vittoriosa partecipazione alla Rivoluzione americana, anelava a consolidare lo sforzo di riacquisire potenza e prestigio. In quest’ottica, non è sorprendente che il suo impegno fosse rivolto a rafforzare la sua potenza militare, tanto sul piano tecnico quanto su quello teorico. Nel primo caso, l’ispettore generale Jean-Baptiste Gribeauval stava lavorando da tempo al perfezionamento dell’artiglieria, arma tecnica per eccellenza, creando un sistema assai ben strutturato, dove i cannoni, anche di calibro diverso, erano costruiti con parti intercambiabili, mentre i carriaggi erano standardizzati, la mobilità era garantita e il miglioramento tecnico dei pezzi risultava costante. Nel secondo caso, un brillante teorico militare, il conte de Guibert, aveva provveduto a riformulare i principi dell’arte della guerra con lo sguardo rivolto al futuro: non più conflitti statici, bloccati intorno a piazzeforti, ma eserciti in rapido movimento, costantemente tesi a ricercare l’annientamento del nemico in una sola battaglia decisiva. Anticipando lucidamente i tempi, egli scrisse: «L’egemonia dell’Europa andrà alla nazione… che sarà più risoluta e creerà un esercito nazionale».

   Fu su questo sfondo che, nel luglio 1789, scoppiò la Rivoluzione francese e l’esercito, in quanto parte della società, ne fu subito coinvolto: come il resto dell’organizzazione sociale transalpina, anche l’esercito era una realtà bloccata, dove non solo i ruoli di comando ma in pratica l’intero corpo ufficiali era riservato ai membri della nobiltà, dalla grande alla piccola, e dove le possibilità di promozione erano estremamente limitate, per non dire inesistenti, se non si possedeva il “sangue giusto”. La Rivoluzione cambiò tutto non solo perché si fece portatrice di mentalità, spirito e valori nuovi, ma anche perché creò, nelle file dell’esercito, una mobilità gerarchica fino a quel momento sconosciuta: basti pensare che, solo nel 1792, ben 5.500 dei 9.500 membri del corpo ufficiali avevano cercato riparo all’estero e, poiché i nemici si addensavano sulle frontiere della Francia, fu necessario promuovere rapidamente ai gradi superiori quei membri della piccola nobiltà di provincia (a cominciare da Napoleone Buonaparte) che avevano frequentato le scuole militari del regno, ricavandone una buona preparazione di base, ma parevano destinati a languire a vita nei gradi subalterni.

   Si determinò così una singolare convergenza tra lo slancio rivoluzionario, con la sua volontà di modificare radicalmente gli assetti politici, economici e sociali, e le esigenze di carriera di una piccola ufficialità che, fino a quella data, aveva vissuto sostanzialmente di frustrazioni e rinunce. Si realizzò così un binomio in cui componente volontaria e componente regolare, slancio rivoluzionario e competenza professionale si fusero perfettamente insieme, dando vita ai famosi eserciti dei “sans culottes”. Quando poi, come nei primi mesi del 1793, l’alleanza tra i nemici della vampata rivoluzionaria fece comparire minacciosamente alle frontiere della Francia grandi eserciti nemici, la Convenzione non esitò a ricorrere (24 febbraio) ad un provvedimento innovativo come la coscrizione obbligatoria per tutti i cittadini di sesso maschile, di età compresa fra i 18 e i 40, celibi o vedovi senza figli. Ne scaturì una “leva in massa” che diede vita a una “Nazione armata” la quale non solo era figlia primogenita della Rivoluzione, ma ne rifletteva alla perfezione lo spirito.

   La musica e le parole de “La Marsigliese” ci consentono ancora oggi di capire, a più di due secoli di distanza, l’entusiasmo che animava queste armate rivoluzionarie, dove forme di collaudato professionismo, spesso provenienti non solo e non tanto dagli ufficiali subalterni, ma addirittura dalla bassa forza, dai soldati semplici (non a caso, tra i marescialli di Napoleone abbonderanno, durante l’Impero, personaggi che avevano cominciato la loro carriere militari dal gradino più basso), si fondevano con la volontà di radicale rinnovamento politico e sociale che animava i volontari.

   Furono costoro a dimostrare al mondo come doveva essere condotta la guerra per la libertà, e lo fecero, oltre che sulla base di una solida motivazione politica e ideologica, anche su quella di novità tattiche e operative che erano inestricabilmente legate a questi nuovi assetti: un esercito del genere – di fatto vettore di un’idea – non poteva che basare le sue tattiche sull’aggressività, sull’assalto frontale, sullo sfruttamento del principio della massa, anche se il lavoro di preparazione pratica svolto da Gribeauval e quello di elaborazione teorica condotto da Guibert forniva preziosi supporti a vari livelli. Sotto la regia di Lazare Carnot, poi, il ministero della Guerra raggiunse vertici insuperati di efficienza, quanto meno in termini di reclutamento e mobilitazione degli uomini. Non si dimostrò altrettanto efficiente, per contro, nella capacità di sostenerne lo sforzo sul piano logistico, ma qui subentrò nuovamente lo spirito rivoluzionario, poiché questi autentici “soldati politici” erano soliti vivere approfittando a man bassa di quanto offrivano loro i territori su cui operavano, per cui le loro formazioni – organizzate su base divisionale – erano sempre più veloci di quelle del nemico a causa della loro totale indipendenza da una catena di rifornimenti.

   Come tale, dunque, la Rivoluzione francese elaborò un sistema di guerra totalmente nuovo, basato a livello strategico sulla grande mobilità degli spostamenti delle truppe, capaci di percorrere in pochi giorni distanze che, solo qualche decennio prima, sarebbero state coperte da un esercito nel corso di mesi. A livello tattico, poiché l’addestramento dei reparti disponibili era assolutamente deficitario e non avrebbe consentito di condurre le complesse manovre in linea tipiche dei principali eserciti professionistici dell’epoca, venne trovata una soluzione – l’impiego dei reparti in colonna – che favoriva il ruolo della massa e che, grazie all’impiego spregiudicato (anche se costoso in termini di vite umane) di quest’ultima, consentiva di far leva sullo slancio rivoluzionario per mettere in fuga le armate di mestiere nemiche, non abituate ad avere a che fare con queste orde indiavolate. L’attacco in colonna, in realtà, era assai rischioso, dato che metteva gli attaccanti alla mercé della potenza di fuoco avversaria, ma, all’epoca, i moschetti non erano efficaci a più di 100 metri di distanza, per cui il tratto che le armate rivoluzionarie dovevano compiere allo scoperto era assai breve, senza contare che la loro avanzata era in genere coperta da nugoli di fanteria leggera (i “tirailleurs”) e che i comandanti più avveduti avevano la possibilità, se riuscivano a controllare adeguatamente i loro reparti sul campo, di ricorrere all’ “ordre mixte”, che combinava lo slancio dell’attacco in colonna con il fuoco di una parte delle truppe attaccanti schierate in linea. Questo sistema – lo vedremo – sarà portato a perfezione da Napoleone, ma dimostrò di funzionare egregiamente anche con altri generali rivoluzionari, come Moreau o Hoche.

   Quanto infine alla tanto dibattuta questione se la Rivoluzione francese introdusse elementi di novità – di “ascesa verso gli estremi”, per dirla con Carl von Clausewitz – nella natura del conflitto, non c’è dubbio che tale componente ci fu (e non avrebbe potuto essere altrimenti, visto il modo con cui i rivoluzionari interpretarono il loro ruolo) e talvolta produsse crudeltà inaccettabili. Al tempo stesso, però, appare una forzatura sostenere che sia stata solo la Rivoluzione ad innescare tali dinamiche. Queste ultime, infatti, non solo erano già presenti, ma tendevano ad accendersi, per così dire, a corrente alternata, poiché non pare possibile sostenere che le guerre religiose dei secoli precedenti (a cominciare dalla Guerra dei Trent’Anni) fossero state prive di terribili eccessi. In questo senso, riesce difficile ritenere che la Rivoluzione francese abbia apportato straordinari elementi di novità sulla natura del conflitto: quest’ultimo, infatti, non divenne più crudele per ragioni di carattere ideologico e/o religioso (infatti, quando queste entravano in gioco, lo era già); semmai, lo divenne per una serie di fattori connessi alle dinamiche stesse della modernità e per il fatto che, quanto più si ampliava la partecipazione individuale alla vita politica, più difficile diventava limitare la guerra a un semplice scontro tra sovrani, retto da regole condivise. Il fatto che ci fossero di mezzo i popoli, mutava radicalmente lo scenario.

                                                                     Piero Visani





domenica 27 ottobre 2013

Hunger

       Hunger è un film girato nel 2008 dal regista inglese Steve McQueen. Il primo aspetto sorprendente è che un inglese possa avere fatto un film così bello su una figura mitica del nazionalismo irlandese come Bobby Sands, il primo dei 10 patrioti irlandesi che, tra il maggio e l'agosto del 1981, sacrificarono deliberatamente la propria vita per protestare contro il regime detentivo cui erano sottoposti dal governo della signora Thatcher, che non riconosceva loro lo status di detenuti politici.
      Affidato alla straordinaria interpretazione di Michael Fassbender, noto attore tedesco (ora naturalizzato irlandese) assurto a fama internazionale con un altro film di McQueen, Shame, la pellicola in questione ricostruisce con precisione la vicenda di Bobby Sands, dimostrandosi molto attenta agli aspetti psicologici della sua scelta così radicale.
      La domanda che pare porsi il regista è la seguente: "Per quale ragione Sands ha percorso fino in fondo una strada così difficile, un percorso di degradazione al termine del quale stava la più orribile delle morti?"
      Il film segue Sands lungo questo itinerario, stando molto attento anche alla descrizione dei particolari più rivoltanti. Sotto questo profilo, è un film terribilmente fisico, ma, al tempo stesso, anche profondamente psicologico,  in quanto illustra anche tutto il percorso umano e intellettuale del protagonista.
       Celebre e centrale, nel film, è un piano-sequenza, della durata di oltre 15 minuti (un'immensità, per il linguaggio cinematografico), in cui Sands dialoga con un prete, venuto a trovarlo in carcere per indurlo a rinunciare alla sua tragica forma di protesta. Sono 14 minuti di dialogo vivacissimo, tra due menti molto brillanti, ciascuna delle quali espone le proprie ragioni. Alla fine Sands non si fa convincere a desistere, ma decide di andare fino in fondo.
       Nella parte finale del film, quando già Sands è sul letto di morte e alterna momenti di conoscenza a stati di assoluta incoscienza, fantastica per bellezza e partecipazione emotiva è la lunga sequenza in cui egli, ancora ragazzino, partecipa con successo a gare di corsa campestre, uno sport nel quale eccelleva. Nel corso di una di queste, improvvisamente trova di fronte a sé una foresta nera e densissima (palese metafora della morte). Ha un momento di difficoltà, si gira indietro per guardare la luce, i colori, la vita che si lascia dietro, ma poi, dopo uno sguardo di addio al mondo, volge il capo in avanti e accelera la sua corsa, determinato a non fermarsi, tanto meno a tornare indietro, perché quella è la sua natura, quella è l'intima ferocia delle sue scelte.
       Film duro, carnale, talvolta disumano e - come tale - assolutamente umano, costituisce uno straordinario omaggio a un martire della libertà d'Irlanda. Un omaggio sommesso, tutt'altro che retorico, ma proprio per questo bellissimo e di impatto emotivo formidabile. Da non perdere, per chi non l'abbia visto.
 
                                Piero Visani

sabato 26 ottobre 2013

Une photo, simple photo...

       Malessere fisico. Forse un'intossicazione alimentare, forse una forma influenzale. Chissà. Non do soverchia importanza ai segnali che provengono dal mio corpo. Vivere impone dei prezzi, è un'attività notoriamente a rischio e non ci sono assicurazioni. Il vitalismo richiede, per l'appunto, élan vital. Tutto il resto è noia.
       Poi è bello pensare che, se io sono Thanatos, posso aver incontrato Eros e pensare che sia il momento di santificare quel felice connubio.
       Sensazioni già vissute, alcune; sensazioni sperimentate direttamente e più vicine nel tempo, altre. Quello che manca è forse ciò che dia loro forma, plasticità espressiva, sintesi visuale di quello che so esserci, che ho sperimentato esserci, ma che non ha ancora trovato adeguata configurazione.
       La sorte mi è benigna e la configurazione arriva, assolutamente imprevista e, come tale, nelle forme di un'autentica epifania.
       Una foto, una semplice foto, ma al tempo stesso molto di più: un codice comunicativo, certo non ancora svelato nella sua interezza, ma nei suoi elementi portanti.
       Una foto che spazza via in un attimo tutto quello che è noto o codificato di quella persona, tutti gli orpelli, tutti gli epifenomeni che la ricoprono, con intenti forse difensivi, e lascia spazio alla sua reale essenza.
       Qualcuno - il solito stolto - direbbe che si tratta di un artefatto, ma non è assolutamente così. Semmai, è un'essenza disvelata e vagamente sovrarappresentata, per illustrarla meglio.
       Un volto finalmente ambiguo, dunque vero; un trucco finalmente accentuato, dunque carico di messaggi; un capo lievemente reclinato e uno sguardo che è copia conforme del mitico quadro "Giuditta", di Gustav Klimt.
       Dalle nebbie di se stessa, una persona emerge in tutta la sua nuda verità, parziale quanto basta per indurmi a voler indagare ancora; eloquente quanto serve a farmi capire che, tra le mille "Lei" possibili, le è chiarissimo quale sia la mia favorita.
       Un tributo del genere mi colpisce ed emoziona nel profondo. E' molto di più di un segnale, è un omaggio. Mi inorgoglisce ma al tempo stesso mi fa capire che il salto di qualità è netto e che occorrerà esserne all'altezza. Lo sarò.
 
                                  Piero Visani

venerdì 25 ottobre 2013

Storia della guerra - 17: La Rivoluzione Americana


   Nella storia della guerra moderna, la Rivoluzione Americana (1776-1783) occupa un posto di rilievo perché segna il classico punto di passaggio tra i conflitti di tipo settecentesco e la ricomparsa di quelli a carattere ideologico. Nella crescente insofferenza dei coloni americani contro il dominio britannico e le sue pressanti esigenze fiscali, erano già presenti, del resto, tutti gli elementi di una fase politica nuova, nella quale la rivendicazione dei diritti di cittadinanza poteva arrivare fino alla scelta di impugnare le armi per farli rispettare.

   Lo “sparo che risuonò nel mondo intero” venne esploso a Lexington, cittadina a poche miglia da Boston, nelle prime ore del mattino del 19 aprile 1775, quando una colonna di truppe inglesi mandate in ricognizione per controllare e disturbare l’attività delle milizie locali, venne affrontata dai “minute men” (uomini mobilitabili con un preavviso brevissimo) che costituivano la punta di lancia delle medesime. Lo scontro che ne seguì fu paradigmatico di tutto quanto avvenne nei successivi anni di guerra: in una prima fase, i miliziani tentarono di affrontare i soldati britannici in un’azione regolare, combattuta in ordine chiuso, ed ebbero ovviamente la peggio. Tuttavia, non appena decisero di cambiare tattica e di tempestare la colonna britannica con il fuoco esploso a distanza ravvicinata da gruppi di tiratori in ordine sparso che cercavano di sfruttare ogni riparo offerto dal terreno, presero rapidamente il sopravvento e costrinsero le truppe inglesi a una precipitosa ritirata in direzione di Boston, infliggendo loro gravi perdite. Se si visita il “Battle Road Trail”, compreso in parte all’interno del “Minute Man National Historical Park” di Concord, è possibile ripercorrere ancora oggi la strada imboccata dai soldati inglesi in ritirata e non è difficile comprendere come, bersagliati da tre lati, si siano trovati in grave difficoltà.

   Anche il cinema ci può aiutare: nel film “Revolution” di Hugh Hudson, Donald Sutherland impersona un sergente maggiore inglese che guida con successo un classico attacco in ordine chiuso del suo reggimento contro la fanteria americana, e la travolge, mentre “Il patriota” di Roland Emmerich ci mostra uno spiritato Mel Gibson condurre azioni di guerriglia contro gli occupanti britannici, poi tutte le asprezze della guerra civile tra rivoluzionari e “lealisti” come Banastre Tarleton, e infine la crescente capacità dell’esercito regolare statunitense di affrontare con successo le “giacche rosse” anche in campo aperto.

   È in America, dunque, che nasce la moderna figura del “cittadino-soldato”, dell’uomo che impugna le armi per difendere un ideale, una causa, una visione del mondo e uno stile di vita. Abituato ad un’esistenza a contatto con la natura, passata a coltivare la terra, spesso ricco di un’esperienza militare fatta combattendo i francesi e/o i pellerossa, il miliziano statunitense è un uomo che ha dimestichezza sia con le armi da fuoco sia con le armi bianche. Ottimo tiratore, perché la caccia costituisce una delle sue principali forme di sostentamento, conosce bene anche il terreno su cui opera e ha appreso dagli indigeni forme di mimetizzazione e di combattimento in ordine sparso che diventano, ancora una volta, componenti essenziali – quali moltiplicatori di forza - di una guerra asimmetrica combattuta dal più debole contro il più forte.

   Queste punture di spillo, in apparenza pressoché ininfluenti, si dimostrarono alla lunga molto debilitanti per un esercito come quello britannico, numericamente scarso e costretto ad operare a migliaia di chilometri dalla madrepatria, con linee di rifornimento lunghissime. La debolezza numerica, infatti, impediva ai generali di Sua Maestà di esercitare un adeguato controllo del territorio e tale mancato controllo consentì a George Washington di disporre del tempo necessario a trasformare un eterogeneo aggregato di milizie in un esercito regolare, istruito alle tattiche convenzionali dai preziosi consigli di un esperto straniero come il generale prussiano von Steuben.

   Proprio questa flessibilità nel passare con disinvoltura dalla guerra di guerriglia al conflitto convenzionale, e viceversa, costituì una delle cause della vittoria finale statunitense: la capacità di combattere una guerra regolare, infatti, e di ottenere vittorie importanti come quella di Saratoga (ottobre 1777), quando un intero esercito inglese venne costretto alla resa, consentì ai rivoltosi di legittimare la nascita di un nuovo Stato e di ottenerne non solo il riconoscimento sul piano internazionale ma di stipulare anche alleanze, a cominciare da quella con la Francia, desiderosa di prendersi una rivincita dopo le sconfitte subite nella Guerra dei Sette Anni e pronta a scendere in campo contro la Gran Bretagna (giugno 1778). Al tempo stesso, nelle non poche occasioni in cui le truppe regolari statunitensi vennero sconfitte sul campo dagli inglesi, trovarono sempre una via di fuga nel passaggio dalla guerra convenzionale a quella irregolare: gli stessi uomini che erano stati battuti dai britannici, infatti, potevano spogliarsi delle divise e trasformarsi in cittadini apparentemente neutrali, ma pronti a colpire con azioni improvvise le lunghe e fragili linee di rifornimento delle forze di Sua Maestà.

   In questo modo, la Gran Bretagna si trovò a combattere più conflitti contemporaneamente, e in tutti risultò soccombente: sul piano delle operazioni non convenzionali, non aveva forze a sufficienza per garantirsi il controllo del territorio, anche se, grazie all’appoggio dei “lealisti”, cioè dei coloni americani fedeli alla corona britannica, poté con il tempo sviluppare forme abbastanza sofisticate di controguerriglia. In queste ultime, divenne evidente che la guerra ideologica non aveva nulla a che fare con quella degli eserciti tradizionali, ancora animata da spirito e tradizioni cavalleresche: i due contendenti, infatti, si abbandonarono a violenze e atrocità molto gravi, dato che l’essere portatori ciascuno di visioni del mondo antitetiche faceva sì che nessuno fosse disposto a riconoscere all’altro una qualche forma di legittimità. Sul versante delle operazioni di tipo convenzionale, per contro, George Washington si rese conto rapidamente che la vittoria finale poteva essere ottenuta solo se l’accolita di miliziani al suo comando fosse riuscita a diventare, nel più breve tempo possibile, un esercito regolare in grado di affrontare con successo gli inglesi in campo aperto. L’essere riuscito a conseguire, in tempi relativamente brevi, questo decisivo obiettivo, benché i suoi uomini fossero pochi, male armati, privi di munizioni e di un adeguato sostegno logistico e sanitario, fu certamente un suo grande merito.

   Il nuovo esercito americano non era probabilmente all’altezza di quello nemico, ma rappresentava la più valida testimonianza che gli USA stavano diventando uno Stato e – come tali – potevano legittimamente aspirare a contrarre alleanze internazionali, a cominciare da quella con la Francia. L’appoggio di Parigi – inutile dirlo – rappresentò un fattore determinante del successo finale della rivoluzione americana, non tanto per il piccolo contingente terrestre (circa 7.000 uomini) che sbarcò nel luglio 1780 sul continente americano per aiutare l’esercito statunitense, quanto perché la flotta francese rese ancora più difficili le attività operative della “Royal Navy”, già costretta ad uno sforzo notevole per il controllo di alcuni porti da utilizzare come base di supporto logistico per le truppe di Sua Maestà. L’entrata in campo della Francia, del resto, stava a significare che la rivoluzione americana aveva ormai assunto una dimensione internazionale e aveva perso le caratteristiche di un conflitto intestino.

   Sottoposti alla convergente pressione del nuovo esercito statunitense e della poderosa flotta francese, gli inglesi, preoccupati del fatto che anche la Spagna e i Paesi Bassi avevano tratto vantaggio delle loro difficoltà per entrare in guerra, nell’evidente intento di recuperare i territori coloniali perduti nel corso dei conflitti precedenti, si trovarono sempre più in difficoltà ad alimentare il loro sforzo bellico in America settentrionale e persero progressivamente interesse per una guerra che appariva ormai perduta. Già nell’ottobre 1781, con la resa delle truppe britanniche a Yorktown, in Virginia, le sorti del conflitto apparvero segnate, ma ci vollero ancora quasi due anni prima che venisse firmata la pace di Parigi (settembre 1783), con la quale la Gran Bretagna riconobbe l’indipendenza delle sue 13 ex-colonie d’oltreoceano.

   Mancavano meno di sei anni allo scoppio della Rivoluzione francese, ma il vento di un’epoca nuova aveva cominciato a spirare con forza, tanto in campo politico quanto militare: nel momento in cui la guerra cessava di essere una sorta di gioco convenzionale tra sovrani con interessi e appetiti diversi, ma che si riconoscevano una reciproca legittimità, e si trasformava in una lotta tra visioni politiche alquanto diverse, quando non radicalmente antitetiche, in cui cresceva il ruolo riservato ai singoli cittadini e alle loro forme di manifestazione politica, l’intera natura del conflitto si apprestava a sperimentare una radicale trasformazione. La Rivoluzione Americana ne aveva fornito qualche indizio, ma il 1789 avrebbe apportato grandissime novità.

                                    Piero Visani




mercoledì 23 ottobre 2013

Storia della guerra - 16: La guerra franco-indiana


   È singolare che, nel tracciare una sintetica storia della guerra, ad un certo punto l’autore finisca per fare capolino all’interno della medesima. In verità, era già ben presente, dal momento che ogni cosa che si scrive è inevitabilmente frutto di un’interpretazione personale. E tuttavia ci sono, in una storia, figure, momenti ed eventi che interessano all’autore più di altri e che probabilmente hanno inciso in maniera notevole sulla sua formazione.

   Bambino nell’Italia degli anni Cinquanta, grazie ad uno zio cinefilo credo di avere visto una quantità industriale di film di guerra, americani e anche italiani. Forse stanco del tripudio di pellicole sulla seconda guerra mondiale, la mia attenzione venne colpita fortemente da un film, Passaggio a Nord-Ovest, girato a colori nel 1940 da King Vidor e interpretato da Spencer Tracy. Tutto mi colpì di quel film: le rutilanti giacche rosse della fanteria inglese, il verde mimetico delle uniformi dei ranger e il paesaggio delle grandi foreste e dei laghi del Nordamerica (anche se il film non venne girato nell’Upper New York State, dove la storia si svolge, ma nell’Idaho e nell’Oregon).

   Tratto da un romanzo di un autore statunitense, Kenneth Roberts, poco conosciuto in Italia ma tradotto da una grande scrittore come Elio Vittorini, il film narra un episodio di una certa importanza della guerra tra francesi e inglesi per il controllo del Nordamerica (1754-1763) e illustra piuttosto bene – pur con tutte le concessioni del caso allo spettacolo e all’enfasi retorica – uno dei problemi fondamentali del conflitto in quelle lande lontane. La vicenda si svolge infatti poco dopo la metà del XVIII secolo e illustra i problemi tattici che le formazioni di fanteria europee, abituate a combattere in ordine chiuso, si trovano ad affrontare in un terreno rotto – la wilderness – caratterizzato da fitte foreste, laghi, montagne e colline, dove è facile perdere l’orientamento e dove i reparti di fanteria tradizionali sono praticamente inermi di fronte agli attacchi dei pellerossa, alla loro straordinaria conoscenza dei luoghi, alla loro capacità di adattare le forme di combattimento alla natura del terreno.

   Su questo sfondo nasce – per dirla in termini moderni – una forma di “guerra asimmetrica”, in cui le truppe inglesi sono più numerose di quelle francesi e dei loro alleati pellerossa, ma non possiedono una tattica adatta ad affrontarli in quel contesto geografico e subiscono in tal modo sconfitte brucianti e dolorose perdite. L’essenza del problema non sfugge ai comandanti britannici più avveduti, i quali, sfruttando la presenza e l’esperienza di elementi delle milizie locali, cominciano ad arruolare compagnie di “ranger”, vale a dire di soldati che combattono in modo del tutto diverso da un esercito europeo: non conoscono le formazioni in ordine chiuso; danno grande importanza alla ricognizione, anche a lungo raggio; amano imitare le tecniche di combattimento degli indiani, come il tiro individuale di precisione da posizioni protette e lo scontro corpo a corpo.

   Nel film, come nel libro di Roberts e nella realtà della presenza inglese in Nordamerica, il comandante dei Ranger è il maggiore Robert Rogers (1731-1795), un giovane ufficiale delle milizie locali dal passato non propriamente adamantino, il quale ha lucidamente compreso che – nel teatro di operazioni che va da Albany (in quello che oggi è lo Stato di New York) a Montréal (in Canada) – l’unico modo possibile per acquisire una superiorità militare permanente consiste nell’affiancare alla presenza delle truppe regolari contingenti sostanzialmente irregolari come i “ranger” al suo comando, che conducono un tipo di conflitto non convenzionale e che colpiscono i francesi e soprattutto i loro alleati indiani con le loro stesse armi.

   Il film illustra, in particolare, l’incursione in profondità compiuta dai “ranger” – tra la metà di settembre e l’inizio di ottobre del 1759 – contro il villaggio degli Abenaki (una tribù locale) di St. François, oggi Odanak (Canada), situato a oltre 150 miglia dal punto di partenza degli uomini di Rogers, la località di Crown Point, sul lago Champlain, ai confini tra Stati Uniti e Canada. Condotto da soli 200 uomini, il raid – un’autentica anticipazione delle moderne missioni delle forze speciali – si conclude in un completo successo, ma il ritorno verso le linee britanniche, inseguiti da indiani e francesi, si rivela per gli uomini di Rogers un’impresa difficilissima, che costa loro la perdita di circa la metà degli effettivi.

   Ho avuto la fortuna, nel 2000, di visitare personalmente i luoghi della Guerra dei Sette Anni in Nordamerica: partendo da Albany, sono risalito in auto fino a Fort William Henry (quello che occupa un ruolo di rilievo nella vicenda de L’ultimo dei Mohicani di James, Fenimore Cooper, visto che è difeso dal colonnello Munro contro gli assedianti francesi al comando del marchese di Montcalm), all’estremità meridionale del Lake George. Ricostruito – con gusto tipicamente statunitense, cioè con una non sempre comprensibile mescolanza di passato parzialmente alterato e presente inequivocabilmente kitsch – in prossimità del sito originale, rende vagamente l’idea di come dovesse una fortificazione di frontiera dell’epoca. Tuttavia, qualche decina di chilometri più a nord, sempre sulle rive del Lake George, la ricostruzione, storicamente molto più accurata, del Forte Ticonderoga, sede nel 1758 di una grande vittoria francese, è di grande soddisfazione per il visitatore. Il paesaggio, inoltre, è molto bello e, anche se oggi la zona è sostanzialmente un’area di vacanze, rende molto bene l’idea della natura dei luoghi in cui si svolse quel difficile conflitto.

   Come si è già avuto modo di accennare, la “guerra asimmetrica” avviata dai francesi – i quali, molto meno numerosi degli inglesi, dovevano cercare forme alternative di conflittualità se volevano difendere con successo i loro possedimenti in Nordamerica – e dai loro alleati pellerossa venne contrastata con successo dai britannici solo quando i loro comandanti si resero conto che il conflitto doveva essere combattuto impedendo a questi ultimi di valorizzare i loro fattori di superiorità. Di conseguenza, non solo vennero creati i “ranger”, ma presto molti reparti della fanteria britannica cominciarono a vedersi impartire un addestramento che li trasformò in fanteria leggera: le uniformi vennero semplificate, rese pratiche e adatte ai luoghi, anche se, a differenza di quelle degli uomini di Rogers, rimasero sempre di un bel rosso vivo, dunque di un colore non propriamente adatto a fini di mimetizzazione; la formazione in ordine chiuso venne lasciata completamente da parte in favore dell’impiego individuale degli uomini, di cui vennero fortemente potenziate le prestazioni nella precisione del tiro, la capacità di movimento, l’abilità nell’esplorazione e nella raccolta di informazioni.

   Solo qualche anno prima, nelle colonie britanniche dell’America settentrionale, era diffusa la convinzione che sarebbe stato sempre difficile sconfiggere i pellerossa sul loro terreno e gli stessi francesi, se fossero stati in grado di adottare con successo le tattiche degli indiani. L’esperienza dei “ranger” del maggiore Rogers, tuttavia, stava a dimostrare che le tattiche di guerriglia, così efficaci contro gli eserciti regolari, potevano essere battute, se chi intendeva farlo si fosse dimostrato sufficientemente flessibile, sul piano tattico, da non lasciarsi condizionare dall’immobilismo e dai preconcetti vigenti per cercare soluzioni operative nuove ed efficaci. Non è un caso, del resto, che le “Rogers’ Rules for Ranging” facciano ancora oggi parte del patrimonio culturale delle Forze Speciali USA.

   Per quanto concerne infine l’esito finale dello scontro tra Francia e Gran Bretagna in Nordamerica, non c’è dubbio che esso fu pesantemente condizionato dalla capacità della “Royal Navy” di controllare le rotte atlantiche e, all’inverso, dall’incapacità della flotta francese di impedirglielo. Privi di un flusso costante di rifornimenti e a corto di uomini, i francesi avrebbero potuto sperare di resistere più a lungo se fossero stati in grado di cogliere dei successi sul campo, come si era dimostrato capace di fare il marchese di Montcalm nel 1757-58. Quando questi vennero a mancare e l’offensiva inglese si fece più massiccia, i francesi si trovarono in difficoltà a sostenere l’urto della potenza britannica, che si esprimeva anche e soprattutto nella capacità di condurre operazioni combinate tra marina ed esercito, e assalti anfibi là – come a Louisbourg (1758) – dove il nemico poteva essere colto in condizioni di inferiorità e vulnerabilità.

   Con queste premesse, la vittoria conseguita dal generale Wolfe a Québec nel 1759 – decisiva, anche se non conclusiva per la presenza francese in America settentrionale – rappresentò l’attestazione più evidente che la guerra, con il passare del tempo, stava sempre più diventando un fenomeno complesso e articolato, in cui fattori politici, economici, strategici, tattici e tecnici convergevano a formare un insieme di ardua gestibilità, in cui era destinato a risultare vincente chi avesse dato prova dell’onestà e della flessibilità intellettuali indispensabili a comprendere che non esistevano certezze assolute e immutabili, ma acquisizioni frammentarie e temporanee, da rinnovare di continuo e da sottoporre altrettanto continuamente alla prova dei fatti. Va reso merito alla mentalità pragmatica inglese di esservi, nella circostanza, riuscita.

                Piero Visani




Chanson exotérique

       Molti miei critici sostengono che, in vita mia, io non abbia fatto altro che cantare una lunga chanson égocentrique. Tesi legittima, cui io preferisco invece quella che avrei cantato una lunga chanson exotérique. La mia vita, infatti, è un percorso di scoperta, di me e degli altri, degli altri che amo.
       Io per primo sono un soggetto esoterico, da scoprire poco alla volta, e sono incline a relazionarmi con soggetti uguali a me, che io tendo per parte mia a fare oggetto di un progressivo processo di scoperta.
       Di norma, preferisco cominciare da quello che i più ritengono l'approdo ultimo, il sesso, che per me è invece l'approdo primo, quello che crea il giusto livello di complicità reciproca. Ma poi, se la persona è quella giusta, da lì comincia un cammino che i più riterrebbero a ritroso e che è invece un autentico percorso esoterico, un percorso di scoperta tra complici. Complici ma ancora sconosciuti. Empatici ma ancora bisognosi di svelarsi davvero. Corpi che forse già si conoscono, ma anime e menti che ancora per gran parte si ignorano.
      Nessun itinerario di scoperta è realmente percorribile senza complicità e intimità, ed è per quello che io ricorro a una strategia inversa rispetto a quelle abituali e amo intensamente quelle donne che condividono questo mio approccio. Io non impongo nulla, ovviamente. L'approccio viene naturale, per entrambi, e diventa un approccio condiviso. Ma è un punto di partenza, non di arrivo. Certi vincoli cadono per esigenze anche biologiche, ma poi davanti a noi si apre un mondo, e quel mondo è infinitamente più vasto di una camera da letto. E' il mondo della conoscenza, della conoscenza reciproca, e va ben al di là della semplice conoscenza carnale. E' la ricerca di un'alchimia che sappiamo già esistere, che abbiamo sperimentato, ma che dobbiamo motivare, spiegare, sviluppare, per capirci, per essere, per edificare un "noi".
      Non è facile trovare soggetti che condividano tale visione del mondo, ma, le rare volte in cui accade, è quasi un miracolo quello che si compie e occorre avere il coraggio di lasciarvisi immergere, consapevoli del momento magico che si sta vivendo. Dunque non si va dal nulla al tutto, cioè da una relazione superficiale a un rapporto intimo, ma si va da quest'ultimo verso mondi lontanissimi, che sono quelli di chi condivide una visione del mondo e sa spartire emozioni, sensazioni, percezioni, vibrazioni, battiti.
       E' un mondo sospeso, fatto di tutto e di niente, dove un respiro, un sospiro, una virgola, uno sguardo, possono accentuare la magia, scatenare la malia, destare emozioni. E due cuori e due menti si allineano in parallelo, nella scoperta, fino a che i loro stessi esseri diventano due metronomi perfettamente in sintonia l'uno con l'altro, i cui battiti scandiscono tempi precisi, in accelerazione come in rallentamento.
        E' un trovarsi, frutto di percorsi difficilissimi da discernere, quasi sicuramente karmici. Un trovarsi che ci porta "oltre" e "altrove", e dove è favoloso arrivare in due, non da soli. Ma non è facile, perché sintonie ed empatie di natura siffatta sono rarissime.
 
                                              Piero Visani

martedì 22 ottobre 2013

Lustigkeit

       La voce, al telefono, è squillante, argentina.
       Piazza San Babila, a Milano, è intrisa di colori da ottobre avanzato, ma non riesco a goderli del tutto, neppure sotto quella pioggerellina lieve che amo tanto.
       La voce al telefono ride. Sente me e ride.
       Mi chiedo quanto di macchiettistico io abbia in me, per indurre la mia interlocutrice a un riso costante, una sorta di ridarella.
       Glielo faccio notare e lei mi risponde che sta esplodendo di felicità. E riprende a ridere.
       Per calmarla, non ho che una soluzione: "Accipicchia" - esclamo - "che pezzo di figliola!"
      "Chi, chi?" - sbotta lei, smettendo immediatamente di ridere.
      "Una modella: altissima, magrissima, bellissima. Un giunco. Una autentica silfide!!" - preciso io.
      "Ma come?" - obietta lei, fintamente (?) indignata - "sei al telefono con me e lodi la prima che passa?"
       "La prima modella che passa", preciso. E aggiungo: "sai che mi piacciono le modelle e sono un incallito womanizer".
       Riprende a ridere, in preda a chissà quali allegri pensieri. Afferma che vorrebbe protendersi fuori dallo smartphone e abbracciarmi.
       L'arrivo di un cliente con cui ho un appuntamento in San Babila interrompe questa telefonata surreale.
       Circa un'ora e mezza dopo, sul treno che mi riporta a Torino, la chiamo e ne nasce una seconda conversazione ai confini della realtà, in cui io disegno scenari e strategie seri, che hanno un profondo senso, per noi due, ma che lei finge di intendere come faceti, forse persino un po' preoccupata da quello che le prospetto. E di nuovo le risate e i lazzi ci sommergono a vicenda.
       La sensazione è che viva tutto come un film, come una sophisticated comedy di cui però, per una volta, è protagonista. E non stia nella pelle, travolta da una infantile ondata di Lustigkeit che non ha ragione di esistere. Una sorta di tardiva Wandervogel colta da un vero e proprio accesso di Wanderlust in un mondo che non conosce e - come spesso accade in casi del genere - si immagina molto più bello di quanto non sia in realtà.
       E ci ritroviamo, di colpo, quasi senza accorgercene, dentro a "29 settembre", e ciascuno di noi potrebbe legittimamente dire: "Parlo, rido e tu tu non sai perché; t'amo, t'amo e tu tu non sai perché", travolti da un'intensità di sensazioni che va oltre la logica percettiva comune e dilaga in spazi che sono "altri" rispetto a quelli abitualmente noti.
       Quella però è la canzone: noi siamo travolti dallo stesso folle sentimento, ma lo sappiamo, il perchè, lo sappiamo benissimo. Forse stentiamo a crederlo, pieni come siamo di ferite, ma la Lustigkeit che ogni giorno di più ci sommerge ci fa capire che, per una volta, il nostro sogno è diventato realtà.

                         Piero Visani

lunedì 21 ottobre 2013

Storia della guerra - 15: La Guerra dei Sette Anni


   La centralità della Guerra dei Sette Anni (1756-1763) nella storia del conflitto è dovuta al fatto che fu la prima guerra moderna su scala intercontinentale. Il primo colpo, in effetti, venne sparato in Nordamerica, il 28 maggio 1754, quando – in una località chiamata Jumonville Glen, circa 45 miglia ad est di Pittsburgh (Pennsylvania) - un tenente colonnello della milizia della Virginia, l’allora sconosciuto George Washington, attaccò di sorpresa un gruppo di soldati francesi. Fu un atto – come ebbe a scrivere Horace Walpole - «che mise il mondo a fuoco», scatenando quella che gli storici anglosassoni chiamano “The French and Indian War”, vale a dire la guerra anglo-francese per il controllo del Nordamerica, che si accese successivamente anche in India e che in Europa venne combattuta anche da altri protagonisti e assunse il nome di Guerra dei Sette Anni.

   Il mondo stava cambiando, gli spazi geografici si stavano dilatando, i commerci stavano determinando un gigantesco trasferimento di ricchezze dall’America e dall’Asia verso l’Europa, ed è comprensibile che le grandi potenze europee, con in testa Gran Bretagna e Francia, mirassero ad acquisire una posizione di predominio che, a quel punto, non sarebbe più stata limitata alla semplice dimensione continentale, ma avrebbe assunto i caratteri di un impero globale.

   Nel Vecchio Continente, la rivoluzione diplomatica che nel 1756 vide la formazione di un’alleanza fra l’impero austriaco e la Francia, i cui rapporti fino a quella data erano stati alquanto difficili, venne considerata da Federico II di Prussia come una minaccia di guerra. Come sempre attento agli aspetti strategici e per nulla incline ad attendere passivamente che gli eserciti austriaci attaccassero il suo Paese, il monarca prussiano optò in favore di una guerra preventiva e invase la Sassonia, stato tedesco di fatto cliente dell’impero austriaco e ottimo punto di partenza per un’invasione della Prussia. La magnifica macchina militare prussiana non ebbe difficoltà a travolgere rapidamente la Sassonia, ma, in risposta all’aggressione, Francia e Russia entrarono in guerra a fianco dell’Austria. Il rischio calcolato che Federico II aveva deciso di assumersi con l’invasione della Sassonia si trasformò così in un pericolosissimo azzardo, poiché il piccolo Stato prussiano si trovò a quel punto circondato da una coalizione di aggressori, presto rinforzati anche dalla Svezia. Gli venne in soccorso solo la Gran Bretagna, che da circa un biennio – come abbiamo visto – era in guerra con la Francia e che, allora come in seguito, era ostile all’instaurarsi in Europa di coalizioni che potessero risultare a suo svantaggio. Londra trovò così un pretesto per intervenire in misura limitata sul continente europeo, a difesa dello Stato tedesco dell’Hannover, da cui proveniva la famiglia regnante inglese, minacciato dai francesi.

   A dimostrazione delle sue eccezionali capacità militari, Federico II non si lasciò intimorire dalla poderosa coalizione che circondava la Prussia e minacciava di annientarla, e incominciò a manovrare il suo piccolo ma efficientissimo esercito per linee interne, in modo da cercare di impedire ai suoi avversari di unire le forze e di conseguire, per quanto possibile, una superiorità locale su ciascuno dei loro eserciti. Grazie alle due brillanti vittorie ottenute, nel novembre-dicembre 1757, a Rossbach sui francesi e a Leuthen sugli austriaci – due battaglie combattute dai prussiani in un rapporto di grave inferiorità numerica rispetto ai loro avversari – Federico II riuscì momentaneamente a sventare il rischio di una completa invasione del suo Paese. Tuttavia, la superiorità austro-russa era troppo grande, mentre la Prussia non disponeva né di risorse materiali né umane sufficienti a sostenere a lungo uno sforzo del genere. Già nell’agosto del 1758, quindi, un esercito russo si spinse fino a soli 100 km dalla capitale prussiana Berlino e venne fermato a Zorndorf, in un sanguinosissimo scontro in cui entrambi i contendenti subirono perdite superiori al 30% degli effettivi presenti.

   Per quando concerne il conflitto tra Francia e Gran Bretagna su scala globale, il punto critico venne raggiunto nel 1759. Questo scontro era stato, fino a quel momento, combattuto essenzialmente sul mare e nelle colonie del Nordamerica e dell’India. Dopo alcune difficoltà iniziali, la Royal Navy era riuscita a ribadire la sua superiorità mentre il governo inglese aveva elaborato una nuova forma di guerra, basata su operazioni combinate mare-terra e assalti anfibi. Grazie ad essa, la flotta di Sua Maestà utilizzava la propria superiorità di trasporto e combattimento per inviare piccoli ma efficienti corpi di spedizione in aree dove il loro intervento era maggiormente richiesto, e per proteggere le loro linee di rifornimento. I successi in tal modo ottenuti, come ad esempio quello del generale Wolfe a Québec (1759), erano spesso di modesta rilevanza tattica, ma di enorme impatto strategico. La vittoria di Québec, infatti, sottrasse ai francesi il controllo del Canada.

   In Europa, tuttavia, l’esito del conflitto era ben diverso che nelle colonie: l’esercito prussiano, per quanto validissimo e ben comandato, non era infatti in grado di resistere, da solo, alle forze congiunte di Austria e Russia. Nell’agosto del 1759, ad esempio, i prussiani furono pesantemente sconfitti a Kunersdorf, dopo aver subito la perdita di 19.000 uomini, tra morti e feriti, su un totale di 50.000 effettivi. Federico II ne fu talmente sconvolto da pensare addirittura al suicidio. L’anno successivo, sia pure per un breve periodo, gli austro-russi occuparono addirittura Berlino. Il sovrano prussiano, tuttavia, recuperò in breve il suo spirito combattivo e riuscì a sconfiggere gli austriaci a Liegnitz (agosto 1760) e Torgau (novembre dello stesso anno).

   Nel 1760, la stanchezza per un conflitto così lungo e impegnativo si stava ormai facendo sentire tra tutti i contendenti. Quando il governo presieduto da William Pitt, autentico motore dello sforzo bellico britannico, si dimise, il sostegno di Londra alla Prussia cominciò a vacillare. Dopo aver subito pesanti perdite umane e gravi devastazioni materiali sul loro territorio nazionale, i prussiani non erano più in grado di continuare le operazioni, mentre la Gran Bretagna, privata della lucida visione strategica di Pitt, l’unico in grado di comprendere che la potenza marinara inglese doveva essere abbinata al mantenimento di una situazione di equilibrio in Europa, pareva seriamente intenzionata a lesinare il proprio sostegno alla Prussia.

   Un cambiamento radicale, del tutto inatteso, si ebbe a seguito dell’improvvisa morte dell’imperatrice Elisabetta di Russia. A lei successe infatti Pietro III, apertamente filoprussiano, il quale si preoccupò subito di firmare un trattato di pace con Federico II. Questo atteggiamento di Pietro III, per nulla condiviso a corte, lo rese vittima di una congiura di palazzo solo sei mesi dopo l’ascesa al trono, ma ormai la strada che portava alla pace era spianata, a causa innanzi tutto del completo esaurimento dei contendenti. Nel febbraio 1763, il trattato di Parigi pose termine alle ostilità.

   Sul momento, la pace parve riconfermare una situazione di equilibrio a livello europeo, e per certi versi era indubbiamente così. Tuttavia, il conflitto aveva un unico grande vincitore e questo era la Gran Bretagna. Allo scoppio della guerra, infatti, la potenza britannica aveva un temibile concorrente nella Francia, che ne insidiava le posizioni in America settentrionale, India ed Europa. Dopo sette anni, per contro, Parigi era definitivamente scalzata dal Nordamerica e si limitava a conservare una presenza simbolica in India. Per di più, il controllo delle principali rotte commerciali dell’epoca passava sotto il pieno e diretto controllo della flotta inglese, mentre la Francia si vedeva relegare al ruolo, importante ma tutt’altro che decisivo, di principale potenza terrestre del Vecchio Continente.

   Sul piano strettamente militare, la Guerra dei Sette Anni era stata prodiga di insegnamenti di tutti i tipi, dalla possibilità di innovazioni nella manovra tattica (si pensi all’”ordine obliquo” dell’esercito prussiano, alla moltiplicazione dei ruoli di impiego della cavalleria, alla flessibilità di azione dell’artiglieria), alla crescente importanza della manovra strategica (di cui Federico II si era rivelato uno degli imperituri maestri), dalla nascita delle operazioni congiunte mare-terra alla riconfermata e sempre più marcata funzione della potenza marittima quale indispensabile supporto per chi volesse esercitare un predominio su scala globale. Era ancora un conflitto combattuto con regole fisse e senso della cavalleria (anche se il tanto celebrato invito che sarebbe stato formulato dai francesi agli inglesi nella battaglia di Fontenoy, di circa un ventennio prima: “Messieurs les Anglais, tirez les premiers!”, è stato successivamente riletto con una più prosaica e cinica invocazione del comandante francese ai propri subalterni: “Messieurs, les Anglais: tirez les premiers!”, che ne stravolge completamente il significato), ma il mondo stava rapidamente cambiando, e la guerra con lui.

                                                    Piero Visani





domenica 20 ottobre 2013

La tempesta perfetta

       Serata di metà ottobre. Nulla di particolarmente positivo, o negativo. Ma l'attesa per un incontro concordato si protrae, e la pazienza non è stata mai il mio forte...
       So che mi dovrei contenere, che dovrei ragionare, usare il cervello, ma a volte istinto e passione prendono il sopravvento, in me, su qualsiasi altra considerazione e allora scateno una tempesta in un bicchier d'acqua. Dovrei astenermi, lo so bene, ma non riesco a controllare il dolore che mi monta dentro, e parto all'attacco.
       Le reazioni che scateno sono dapprima incredule, poi giustamente adirate. Pochissimi sono disposti a seguirmi sulla strada che mi induce a mettere in discussione tutto per insoddisfazione nei riguardi di un particolare. Nessuno riesce a comprendere come io possa essere così pazzo. E invece io lo sono, lo sono sempre stato, probabilmente lo sarò anche in futuro. Il mio desiderio di perfezionismo è tale da indurmi, talvolta, a provocare disastri.
        Nel bel mezzo della "tempesta perfetta", tuttavia, non cesso nemmeno per un attimo di mantenere il controllo della situazione, di osservare attentamente le reazioni della mia controparte, di cercare di capire ciò che la fa indignare, oppure arrabbiare, o soffrire.
        Amo osservare i comportamenti delle persone in situazioni di crisi e scopro con mia soddisfazione una persona attaccata alle proprie idee, al proprio modo di essere, a una certa immagine di sé. Una persona forse delusa di vedermi diverso da come mi ha sempre immaginato, percepito e vissuto, ma non disposta ad abbassare il capo, anzi attenta a difendere la propria identità.
       Ne sono compiaciuto e, anche se il dialogo notturno in chat non finisce benissimo, so già che la telefonata chiarificatrice del giorno dopo metterà fine a ogni attrito, a ogni dubbio. E così è.
       Quando i sentimenti sono veri, reali, non mossi da alcuna forma di interesse, la passione e l'energia positiva hanno rapidamente la meglio su qualsiasi altra considerazione, la tempesta si placa e ritorna il sereno.
       E' quanto è successo anche a noi e ci ridiamo subito su, ben consapevoli del fatto che quello 0,01% che ci ha diviso non può avere la meglio sul 99,99% che ci unisce. Anzi, il piccolo pericolo che abbiamo corso esaspera le nostre reazioni e ci induce ad essere ancora più empatici di prima. Nulla può allontanarci, in questo momento di magia, per il semplice fatto che non siamo due persone, ma due parti di un unico essere che si chiama NOI.
       La scintilla che è scoccata non si è spenta e la "tempesta perfetta" che ci ha inondato per un attimo non l'ha neppure sfiorata, se non che per vivificarla con i suoi venti forti e sostenuti. E ora siamo in un nuovo porto, di un altro mare, pronti a nuove esplorazioni.
 
                               Piero Visani

sabato 19 ottobre 2013

Storia della guerra - 14: L'esercito di Federico il Grande


   In tempi un po’ diversi dagli attuali, quando profferire parole del genere non rischiava di esporsi a sciocchi fraintendimenti, re Federico Guglielmo I di Prussia, per altro noto per uno stile personale di vita alquanto incline ai rapporti con l’altro sesso, era solito affermare: «la più bella ragazza o donna del mondo potrebbe lasciarmi indifferente; i soldati, invece, sono il mio punto debole!». Non ci potrebbe essere incipit più eloquente per illustrare la ratio con cui, nei primi decenni del Settecento, i sovrani prussiani forgiarono uno “Stato caserma” e una macchina militare destinata a conquistarsi fama imperitura, grazie alle vittorie di Federico il Grande durante la Guerra dei Sette Anni (1757-1763).

   Fu proprio il padre di Federico il Grande, il già citato Federico Guglielmo I, a dedicare tutte le sue energie e tutte le risorse del Paese al potenziamento dell’esercito. Stato piccolo e relativamente povero, a fronte della grandi potenze dell’epoca come Francia, Gran Bretagna e impero austriaco, la Prussia, sotto la guida del “Re Sergente”, provvide all’edificazione di un esercito formidabile, basato sulla ripetizione ad infinito degli stessi esercizi e delle stesse manovre, nonché su una disciplina rigidissima, fondata sul fatto – come era solito sostenere Federico il Grande – che «in linea di massima il soldato deve temere il proprio ufficiale più del nemico». Il sistema si rivelò efficace, anche se fu costantemente travagliato dalla piaga delle diserzioni, poiché per chiunque era difficile resistere a lungo al tipo di coercizioni cui era sottoposto.

   Sotto il profilo tecnico, quello prussiano fu il primo esercito europeo a mettere concretamente in atto i perfezionamenti resi possibili dalla transizione dal moschetto al fucile. Quest’ultimo era più leggero e maneggevole del suo predecessore, e soprattutto poteva essere utilizzato dai fanti stando vicinissimi gli uni agli altri, senza che ciò comportasse rischi per la loro incolumità personale. Addestrati in maniera maniacale, spendendo un numero incredibile di ore nei poligoni di tiro e nelle piazze d’armi, i soldati prussiani – una volta completato il loro ciclo formativo – riescono a compiere le 22 manovre necessarie al caricamento dell’arma di cui sono dotati in soli 30 secondi. Ciò consente loro di sviluppare una cadenza di fuoco piuttosto serrata e sopperisce al fatto che il moschetto prussiano, lungo un metro, è talmente pesante in punta che molti fanti riescono a maneggiarlo con difficoltà, per cui non è raro che la punta tenda ad inclinarsi in avanti e i colpi a risultare bassi e corti. Tuttavia, alle carenze individuali sopperisce l’organizzazione del tiro, severamente coordinata dagli ufficiali e in grado, grazie al ricorso alternato alle tre linee di uomini che compongono lo schieramento classico della fanteria prussiana, di mantenere una cadenza di fuoco di 5-6 colpi al minuto. Ma non è tutto, perché le migliaia di ore spese dai reggimenti prussiani nelle piazze d’armi, impegnati a manovrare in ordine chiuso, consentono loro di imparare a muoversi con perfetta linearità e regolarità anche su terreni accidentati, mantenendo un allineamento perfetto e compiendo movimenti assai complessi. Tutto si basa sulla perfetta regolarità e la precisa lunghezza del passo che vengono addestrati a compiere, mantenendo una distanza di 71 centimetri tra i due piedi e muovendosi ad un rimo di 75 passi al minuto. Non è un andatura rapida, anzi è relativamente lenta, ma tale lentezza – palesemente studiata – conferisce ai movimenti cadenzati della fanteria prussiana un che di solenne, capace di impressionare psicologicamente il nemico. Se poi le esigenze operative lo rendono necessario, questi reparti non hanno alcuna difficoltà a passare da 75 a 120 passi al minuto, muovendosi molto più celermente.

   Questa perfetta macchina militare è frutto – come accennato – di uno “Stato caserma” al vertice del quale c’è il sovrano, circondato dalla nobiltà. Sono soprattutto i nobili di campagna, gli Junker, proprietari di appezzamenti di terra di varie dimensioni, ad esercitare un potere di tipo quasi feudale sui contadini che lavorano le loro terre e che costituiscono la gran massa dell’esercito. Fondato sul criterio della coscrizione obbligatoria, l’esercito prussiano ricalca alla perfezione la struttura organicistica della società che lo esprime: è reclutato su base locale e, nei suoi reggimenti, gli ufficiali appartengono spesso alle famiglie nobiliari della zona di provenienza del reggimento. Esiste dunque un paternalismo diffuso, che è frutto anche delle concezioni della monarchia prussiana, dove Federico II, succeduto al padre nel 1740, può forse non dimostrarsi insensibile alle suggestioni tipiche del “secolo dei Lumi”, ma è al tempo stesso un autocrate severo e inflessibile, molto scettico nei confronti della nascente borghesia locale e dei suoi valori, e fermamente convinto che solo la nobiltà sia dotata di quel senso dell’onore che, in battaglia, è indispensabile per il comando degli uomini. Non a caso, se Federico II (passato alla storia con l’appellativo de “il Grande” per i mirabili successi militari colti durante la Guerra dei Sette Anni) è colui che, afferrando alla battaglia di Kolin (1757) la bandiera del 3° Reggimento fanteria, cerca di vincere le esitazioni dei suoi soldati ad avanzare esclamando: «Furfanti, volete vivere in eterno?», è anche colui che, nel farlo, si pone alla testa del reggimento, marciando risolutamente verso il nemico. E, tra i suoi generali e ufficiali superiori, gli esempi in tal senso si sprecano. In una parola, la nobiltà prussiana conduce una vita di privilegi, ma è legatissima al sovrano, da cui derivano tutte le sue fortune e, sul campo di battaglia, sa morire e non esita a farlo, ben consapevole del fatto che la conquista della gloria militare è una delle più solide garanzie della perpetuazione del suo potere. Questa forma di moderna leadership by doing – come direbbero gli americani – fa del corpo ufficiali prussiano una casta e di chiunque appartenga ad essa un uomo che si colloca al di sopra della media, perché, quando è necessario – e lo è assai spesso – sa guardare freddamente in faccia la morte e non esita a sceglierla, se l’onore lo impone. Non a caso, le perdite al suo interno sono pesanti e non risparmiano nemmeno gli alti gradi.

   Quantitativamente solida (già nel 1740 poteva contare su un organico di 80.000 uomini; in quello stesso anno l’esercito austriaco, pur potendo contare su una base di popolazione dieci volte superiore a quella della Prussia, aveva una forza di soli centomila uomini; al culmine della Guerra dei Sette Anni, poi, l’esercito prussiano era costituito dal 4,4% dell’intera popolazione del regno, a fronte dell’1,6% della Francia), l’armata prussiana poteva contare su un corpo ufficiali fornito di una buona formazione di base e soprattutto su un comandante – lo stesso sovrano – che è giustamente annoverato tra i migliori capitani di tutti i tempi.

   Federico II riuniva in sé una serie di qualità, personali e frutto dell’educazione che gli era stata impartita, che ne facevano innanzi tutto un profondo conoscitore della macchina militare prussiana. Quest’ultima, in particolare sotto il profilo tattico, aveva raggiunto livelli di efficienza ineguagliati all’epoca, che consentirono al suo comandante di utilizzare soluzioni d’impiego nuove, a cominciare dal famoso “ordine obliquo” che, riprendendo una pratica risalente ad una tradizione militare della Grecia antica, quella tebana, gli permise in parecchie occasioni di affrontare il nemico non di fronte ma sul fianco, utilizzando ovviamente a proprio vantaggio tale superiorità. Ma Federico II perfezionò anche l’impiego della cavalleria (diversificando nettamente i compiti della cavalleria leggera da quelli della cavalleria pesante), quello dell’artiglieria (puntando sull’impiego di pezzi sempre più leggeri e in grado di sostenere sempre e comunque l’azione della fanteria) e si dimostrò soprattutto un abilissimo stratega, prendendo decisioni molto azzardate e assumendo rischi elevatissimi nella speranza di poter riportare successi altrettanto eclatanti. La grandiosa vittoria di Leuthen (1757) e la capacità di condurre un conflitto su più fronti contro nemici soverchianti costituiscono altrettante testimonianze del genio tattico e della straordinaria abilità strategica del re di Prussia.

   Le straordinarie fortune di cui poté godere la macchina militare prussiana intorno alla metà del Settecento la trasformarono in un esempio celebrato e rispettato da tutti gli eserciti europei, e le costruirono intorno una fama che era ancora ben viva nel 1806, quando tale macchina si nutriva essenzialmente di ricordi e venne spazzata via dalle armate napoleoniche nella battaglia di Jena. Tuttavia, la base che Federico il Grande aveva edificato era indubbiamente molto solida, se da essa scaturirono figure cruciali della storia militare prussiana come Scharnhorst, Gneisenau, un teorico raffinato come von Clausewitz e un “soldataccio” brutale ma efficace come il maresciallo Blücher. Le fanterie che già nel 1815 riuscirono a scacciare la Giovane Guardia da Plancenoit e ad irrompere sul fianco destro della Grande Armée a Waterloo, dando un contributo decisivo alle sorti della battaglia, erano le dirette discendenti di quelle di Jena. Sul solido modello fredericiano, erano state innestate innovazioni, in parte mutuate da quelle napoleoniche, che avevano riportato rapidamente in auge la tradizione militare prussiana.

                                                              Piero Visani