mercoledì 23 ottobre 2013

Storia della guerra - 16: La guerra franco-indiana


   È singolare che, nel tracciare una sintetica storia della guerra, ad un certo punto l’autore finisca per fare capolino all’interno della medesima. In verità, era già ben presente, dal momento che ogni cosa che si scrive è inevitabilmente frutto di un’interpretazione personale. E tuttavia ci sono, in una storia, figure, momenti ed eventi che interessano all’autore più di altri e che probabilmente hanno inciso in maniera notevole sulla sua formazione.

   Bambino nell’Italia degli anni Cinquanta, grazie ad uno zio cinefilo credo di avere visto una quantità industriale di film di guerra, americani e anche italiani. Forse stanco del tripudio di pellicole sulla seconda guerra mondiale, la mia attenzione venne colpita fortemente da un film, Passaggio a Nord-Ovest, girato a colori nel 1940 da King Vidor e interpretato da Spencer Tracy. Tutto mi colpì di quel film: le rutilanti giacche rosse della fanteria inglese, il verde mimetico delle uniformi dei ranger e il paesaggio delle grandi foreste e dei laghi del Nordamerica (anche se il film non venne girato nell’Upper New York State, dove la storia si svolge, ma nell’Idaho e nell’Oregon).

   Tratto da un romanzo di un autore statunitense, Kenneth Roberts, poco conosciuto in Italia ma tradotto da una grande scrittore come Elio Vittorini, il film narra un episodio di una certa importanza della guerra tra francesi e inglesi per il controllo del Nordamerica (1754-1763) e illustra piuttosto bene – pur con tutte le concessioni del caso allo spettacolo e all’enfasi retorica – uno dei problemi fondamentali del conflitto in quelle lande lontane. La vicenda si svolge infatti poco dopo la metà del XVIII secolo e illustra i problemi tattici che le formazioni di fanteria europee, abituate a combattere in ordine chiuso, si trovano ad affrontare in un terreno rotto – la wilderness – caratterizzato da fitte foreste, laghi, montagne e colline, dove è facile perdere l’orientamento e dove i reparti di fanteria tradizionali sono praticamente inermi di fronte agli attacchi dei pellerossa, alla loro straordinaria conoscenza dei luoghi, alla loro capacità di adattare le forme di combattimento alla natura del terreno.

   Su questo sfondo nasce – per dirla in termini moderni – una forma di “guerra asimmetrica”, in cui le truppe inglesi sono più numerose di quelle francesi e dei loro alleati pellerossa, ma non possiedono una tattica adatta ad affrontarli in quel contesto geografico e subiscono in tal modo sconfitte brucianti e dolorose perdite. L’essenza del problema non sfugge ai comandanti britannici più avveduti, i quali, sfruttando la presenza e l’esperienza di elementi delle milizie locali, cominciano ad arruolare compagnie di “ranger”, vale a dire di soldati che combattono in modo del tutto diverso da un esercito europeo: non conoscono le formazioni in ordine chiuso; danno grande importanza alla ricognizione, anche a lungo raggio; amano imitare le tecniche di combattimento degli indiani, come il tiro individuale di precisione da posizioni protette e lo scontro corpo a corpo.

   Nel film, come nel libro di Roberts e nella realtà della presenza inglese in Nordamerica, il comandante dei Ranger è il maggiore Robert Rogers (1731-1795), un giovane ufficiale delle milizie locali dal passato non propriamente adamantino, il quale ha lucidamente compreso che – nel teatro di operazioni che va da Albany (in quello che oggi è lo Stato di New York) a Montréal (in Canada) – l’unico modo possibile per acquisire una superiorità militare permanente consiste nell’affiancare alla presenza delle truppe regolari contingenti sostanzialmente irregolari come i “ranger” al suo comando, che conducono un tipo di conflitto non convenzionale e che colpiscono i francesi e soprattutto i loro alleati indiani con le loro stesse armi.

   Il film illustra, in particolare, l’incursione in profondità compiuta dai “ranger” – tra la metà di settembre e l’inizio di ottobre del 1759 – contro il villaggio degli Abenaki (una tribù locale) di St. François, oggi Odanak (Canada), situato a oltre 150 miglia dal punto di partenza degli uomini di Rogers, la località di Crown Point, sul lago Champlain, ai confini tra Stati Uniti e Canada. Condotto da soli 200 uomini, il raid – un’autentica anticipazione delle moderne missioni delle forze speciali – si conclude in un completo successo, ma il ritorno verso le linee britanniche, inseguiti da indiani e francesi, si rivela per gli uomini di Rogers un’impresa difficilissima, che costa loro la perdita di circa la metà degli effettivi.

   Ho avuto la fortuna, nel 2000, di visitare personalmente i luoghi della Guerra dei Sette Anni in Nordamerica: partendo da Albany, sono risalito in auto fino a Fort William Henry (quello che occupa un ruolo di rilievo nella vicenda de L’ultimo dei Mohicani di James, Fenimore Cooper, visto che è difeso dal colonnello Munro contro gli assedianti francesi al comando del marchese di Montcalm), all’estremità meridionale del Lake George. Ricostruito – con gusto tipicamente statunitense, cioè con una non sempre comprensibile mescolanza di passato parzialmente alterato e presente inequivocabilmente kitsch – in prossimità del sito originale, rende vagamente l’idea di come dovesse una fortificazione di frontiera dell’epoca. Tuttavia, qualche decina di chilometri più a nord, sempre sulle rive del Lake George, la ricostruzione, storicamente molto più accurata, del Forte Ticonderoga, sede nel 1758 di una grande vittoria francese, è di grande soddisfazione per il visitatore. Il paesaggio, inoltre, è molto bello e, anche se oggi la zona è sostanzialmente un’area di vacanze, rende molto bene l’idea della natura dei luoghi in cui si svolse quel difficile conflitto.

   Come si è già avuto modo di accennare, la “guerra asimmetrica” avviata dai francesi – i quali, molto meno numerosi degli inglesi, dovevano cercare forme alternative di conflittualità se volevano difendere con successo i loro possedimenti in Nordamerica – e dai loro alleati pellerossa venne contrastata con successo dai britannici solo quando i loro comandanti si resero conto che il conflitto doveva essere combattuto impedendo a questi ultimi di valorizzare i loro fattori di superiorità. Di conseguenza, non solo vennero creati i “ranger”, ma presto molti reparti della fanteria britannica cominciarono a vedersi impartire un addestramento che li trasformò in fanteria leggera: le uniformi vennero semplificate, rese pratiche e adatte ai luoghi, anche se, a differenza di quelle degli uomini di Rogers, rimasero sempre di un bel rosso vivo, dunque di un colore non propriamente adatto a fini di mimetizzazione; la formazione in ordine chiuso venne lasciata completamente da parte in favore dell’impiego individuale degli uomini, di cui vennero fortemente potenziate le prestazioni nella precisione del tiro, la capacità di movimento, l’abilità nell’esplorazione e nella raccolta di informazioni.

   Solo qualche anno prima, nelle colonie britanniche dell’America settentrionale, era diffusa la convinzione che sarebbe stato sempre difficile sconfiggere i pellerossa sul loro terreno e gli stessi francesi, se fossero stati in grado di adottare con successo le tattiche degli indiani. L’esperienza dei “ranger” del maggiore Rogers, tuttavia, stava a dimostrare che le tattiche di guerriglia, così efficaci contro gli eserciti regolari, potevano essere battute, se chi intendeva farlo si fosse dimostrato sufficientemente flessibile, sul piano tattico, da non lasciarsi condizionare dall’immobilismo e dai preconcetti vigenti per cercare soluzioni operative nuove ed efficaci. Non è un caso, del resto, che le “Rogers’ Rules for Ranging” facciano ancora oggi parte del patrimonio culturale delle Forze Speciali USA.

   Per quanto concerne infine l’esito finale dello scontro tra Francia e Gran Bretagna in Nordamerica, non c’è dubbio che esso fu pesantemente condizionato dalla capacità della “Royal Navy” di controllare le rotte atlantiche e, all’inverso, dall’incapacità della flotta francese di impedirglielo. Privi di un flusso costante di rifornimenti e a corto di uomini, i francesi avrebbero potuto sperare di resistere più a lungo se fossero stati in grado di cogliere dei successi sul campo, come si era dimostrato capace di fare il marchese di Montcalm nel 1757-58. Quando questi vennero a mancare e l’offensiva inglese si fece più massiccia, i francesi si trovarono in difficoltà a sostenere l’urto della potenza britannica, che si esprimeva anche e soprattutto nella capacità di condurre operazioni combinate tra marina ed esercito, e assalti anfibi là – come a Louisbourg (1758) – dove il nemico poteva essere colto in condizioni di inferiorità e vulnerabilità.

   Con queste premesse, la vittoria conseguita dal generale Wolfe a Québec nel 1759 – decisiva, anche se non conclusiva per la presenza francese in America settentrionale – rappresentò l’attestazione più evidente che la guerra, con il passare del tempo, stava sempre più diventando un fenomeno complesso e articolato, in cui fattori politici, economici, strategici, tattici e tecnici convergevano a formare un insieme di ardua gestibilità, in cui era destinato a risultare vincente chi avesse dato prova dell’onestà e della flessibilità intellettuali indispensabili a comprendere che non esistevano certezze assolute e immutabili, ma acquisizioni frammentarie e temporanee, da rinnovare di continuo e da sottoporre altrettanto continuamente alla prova dei fatti. Va reso merito alla mentalità pragmatica inglese di esservi, nella circostanza, riuscita.

                Piero Visani