mercoledì 9 ottobre 2013

Storia della guerra - 9: I condottieri


   Le età di transizione, per loro stessa natura, sono spesso caratterizzate dalla contemporanea presenza di fenomeni diversi, alcuni sicuramente da ascrivere al “nuovo che avanza”, altri di più incerta tipologia, magari ricchi di colore e anche di insegnamenti validi ancor oggi, ma più legati al passato. Inoltre una storia della guerra, per quanto sintetica, si vedrebbe privata di un capitolo importante se non parlasse pure, essendo per di più scritta in Italia, dei “condottieri”.

   Per farlo, è necessario accennare, nel passaggio dal Medioevo all’età moderna, alla comparsa, durante la guerra dei Cento Anni (1337-1453), di bande di combattenti che, agendo in nome e per conto di sé medesimi, giravano per la Francia spargendo violenza e mettendosi al servizio del miglior offerente. La maggior parte di queste bande era guidata da gentiluomini decaduti, i quali, privati dei loro possedimenti feudali, cercavano di trovare una qualche forma di riscatto individuale e sociale immettendo sul mercato – come si direbbe oggi – il loro più tipico patrimonio di competenze, cioè le capacità militari. A partire dal 1360, sempre in Francia, queste bande diventano molto potenti e assumono la denominazione di “grandi compagnie”, riuscendo persino ad affrontare, sovente con successo, l’esercito regio. Sarà appunto un sovrano, Carlo VII, a prendere atto di non essere in grado di sconfiggerle e a decidere di “istituzionalizzarle”, se così si può dire, con la creazione delle “compagnie di ordinanza”, dalle quali sorgerà l’esercito regolare francese.

   Un fenomeno non troppo diverso si verifica in Italia a cavallo tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo: all’epoca, il nostro è un Paese ricco, ma politicamente molto frammentato e tormentato da rivalità reciproche. Le classi dirigenti dei vari Stati e staterelli in cui si divide la penisola sono troppo interessate a fare affari per potersi occupare della guerra, senza contare che esse conducono un’esistenza molto agiata, alla quale è assai difficile rinunciare a favore della scomoda pratica delle armi. Oltre a ciò, l’eventuale ricorso a milizie popolari è guardato con comprensibile diffidenza, poiché sussiste il non infondato timore che, se addestrato all’uso delle armi, il popolo avrebbe potuto alla lunga rivoltarsi contro i suoi dominatori. Tuttavia, poiché il livello di conflittualità reciproca tra i vari soggetti politici della Penisola è particolarmente elevato e una sconfitta sul campo può rappresentare la differenza che intercorre tra il mantenimento del potere e la sua definitiva perdita, si fa urgente il ricorso a soldati di mestiere che, con le loro “compagnie di ventura”, apportano gli uomini, le armi e le competenze operative utili a condurre con successo una guerra.

   In una fase iniziale, le prime compagnie di ventura assoldate furono composte prevalentemente da stranieri (francesi, tedeschi, inglesi): si trattava di soldati di professione rimasti senza occupazione nei rispettivi Paesi di provenienza a seguito di periodi di pace più o meno lunghi e alla ricerca, quindi, di nuovi committenti. Poiché la guerra era l’unico mestiere che essi conoscessero, non era sorprendente che andassero a cercare lavoro là dove sapevano di poterlo trovare, e ben remunerato, per di più. Tra i primi soldati di ventura a trovare fortuna in Italia si ricordano il tedesco Werner von Urslingen – noto nel nostro Paese come “il duca Guarnieri” – il quale, autoproclamandosi «capo della grande compagnia, nemico di Dio, della pietà e della misericordia», combatté per diversi padroni e – evidentemente poco (o fin troppo) coerente con i suoi proclami – passò infine al servizio del Papa…

   Molto noto fu pure l’inglese John Hawkwood – detto “Giovanni Acuto”, per assonanza, nel linguaggio dei suoi contemporanei italiani – al quale va riconosciuto il merito di una grande franchezza personale: si narra infatti che, quando incontrava dei frati francescani che lo salutavano con il loro tradizionale e benaugurante “Dio vi dia pace!”, egli non esitasse a rispondere, evidentemente poco avvezzo alle sottigliezze del “politicamente corretto”: “Ma non sapete che io vivo della guerra e la pace sarebbe la mia rovina?”.

   Fu Alberico da Barbiano, discepolo dell’Acuto, a formare, nel 1379, la prima compagnia di ventura italiana e a dimostrare che, sul campo di battaglia, essa non era minimamente inferiore a quelle straniere, anzi. Proprio questo fenomeno di crescente “italianizzazione” delle compagnie fa sì, in quegli stessi anni, che i servizi da esse forniti vengano definiti e stabilizzati in base alle regole formulate dalla cosiddetta “condotta”, vale a dire da una sorta di contratto, sancito da un solenne giuramento, stabilito tra un capitano di ventura e uno Stato, una città, un principato o una Lega. Tale “condotta” – da cui deriverà ovviamente la definizione di “condottieri” per coloro che la stipulano essendo a capo delle compagnie di ventura – è regolata da obiettivi e ambiti specifici, ha una durata precisa ed elenca dettagliatamente quali effettivi, armi e mezzi il condottiero debba mettere a disposizione del committente, per l’assolvimento di quali obblighi e naturalmente in cambio di quale remunerazione.

   Padrone assoluto della propria truppa, spesso proprietario di una parte significativa dei cavalli e delle armi di cui essa è dotata, il condottiero – alla scadenza della “condotta” – è libero di cambiare campo, se qualcuno gli offre di più o se le circostanze lo richiedono. E non si pone grandi scrupoli nel farlo.

   L’epopea dei condottieri (tra cui si possono citare, tra i tanti,  il Gattamelata, Bartolomeo Colleoni, il conte di Carmagnola) è molto interessante non solo e non tanto dal punto di vista storico, anche perché la loro incidenza sull’evoluzione dell’arte della guerra fu scarsa o nulla, quanto soprattutto per la luce che essa getta sulla natura immutabile del mercenariato, un fenomeno che la recente crescita esponenziale dei cosiddetti contractors ha reso di grande attualità. Il soldato di ventura, allora come ora, non è granché interessato alla pace, poiché quest’ultima segna la messa in crisi della sua funzione e la fine della possibilità di arricchirsi. Al tempo stesso, il suo impiego operativo è caratterizzato da una grande prudenza, dal momento che chi fa la guerra per vivere è l’antitesi della figura del guerriero e ha come precipuo obiettivo quello di uscire vivo, più che vincitore, dai combattimenti. Ciò crea una sostanziale coincidenza d’interessi con il nemico, specie se quest’ultimo è rappresentato anch’esso da mercenari, visto che l’obiettivo di entrambi i contendenti è quello di massimizzare il bottino e minimizzare le perdite. Molto meno sicure si possono sentire, per contro, le popolazioni civili, dal momento che il rispetto nei confronti delle medesime, da parte dei soldati di ventura, è prossimo allo zero, visto che ai suoi occhi esse hanno un ruolo puramente passivo, e non molto tranquillo si deve sentire pure il potere politico, dal momento che chi detiene il monopolio delle armi, all’interno di uno Stato, può farsi cogliere dalla tentazione di farlo pesare a proprio personale vantaggio, liberandosi di scomodi padroni. Non è un caso, del resto, che molti condottieri, magari di umili origini, abbiano fatto una straordinaria carriera proprio grazie alla forza che potenzialmente erano in grado di esercitare a carico di chi concedeva loro lauti contratti.

   Non è sorprendente, sulla base delle premesse precedentemente citate, che le guerre svolte dai condottieri e dalle compagnie di ventura siano state conflitti limitati, con un ridotto livello di violenza reciproca (anche se non era raro che ben superiore fosse il livello di violenza esercitato a carico delle popolazioni civili) e un frequente ricorso ad espedienti e astuzie di ogni genere, tali da consentire il raggiungimento di decisivi vantaggi con il minimo spargimento di sangue. Un conflitto di questo tipo, tuttavia, proprio per la sua intrinseca natura tendeva a diventare cronico, a trasformarsi in una “festa crudele” di cui le vittime, spesso e volentieri, non erano i combattenti (che giustamente Franco Cardini ha paragonato a membri di moderne compagnie commerciali in competizione reciproca, ma non in urto inconciliabile), bensì le popolazioni inermi e le loro terre, sottoposte a pesanti distruzioni e spoliazioni.

   Da questo come da altri punti di vista, a cominciare dalla scarsa o nulla attenzione all’evoluzione dell’arte militare, i condottieri rappresentarono il “canto del cigno” del Medioevo e della relativa concezione della guerra. Il mondo stava cambiando e ormai era sempre più vicina la definitiva affermazione delle armi da fuoco, di quell’ «o maledetto, o abominoso ordigno» bollato dall’Ariosto come strumento di origine palesemente diabolica. La guerra si stava avvicinando ad una svolta di portata epocale ed era sempre più prossimo l’avvento degli eserciti regolari.

                                                       Piero Visani