lunedì 29 dicembre 2014

La Québécoise - Racconto di Natale (Parte 1)

      Nei lunghi anni del suo soggiorno negli USA, Carlo non aveva potuto, per Natale, fare ritorno in famiglia. Non che del Natale gli fosse mai importato granché, anzi probabilmente non gli era mai importato nulla, ma non era bello essere costretto a rimanere a migliaia di chilometri da casa, in perfetta solitudine, in attesa che i giorni del periodo natalizio passassero uno dopo l'altro, con una lentezza esasperante. Così, dopo due o tre Natali molto tristi, aveva deciso: se non poteva assentarsi dall'ufficio per servizio nei giorni lavorativi, certo poteva farlo in quelli festivi. Dunque la mattina di Natale, fatte le telefonate di rito alla famiglia, prendeva l'auto e usciva da New York, dove era in servizio, ogni volta in una direzione diversa.
       Quell'anno aveva deciso di puntare verso Montréal, risalendo l'intera valle dello Hudson, lungo una zona a lui ben nota e molto cara, quella della Guerra Franco-Indiana del 1755-1763. La giornata era gelida, ma assolutamente solatia. Il traffico quasi inesistente, per cui non gli ci vollero più di tre ore per arrivare ad Albany, la capitale dello Stato di New York.
       La città - già di norma non particolarmente eccitante - appariva deserta, ai limiti dello spettrale, ma Carlo non aveva alcuna intenzione di fermarsi, bensì di proseguire verso Nord, in direzione di Saratoga Springs, Lake George, Fort Ticonderoga, Crown Point e infine Montréal, dove prevedeva di arrivare nel pomeriggio avanzato.
       Ad Albany, tuttavia, aveva deciso di lasciare la Route 87, quella diretta verso il Canada, e di lì spostarsi sulla 4, la strada che sale verso Nord, per poi procedere sulla 9N subito dopo Queensbury e costeggiare il Lake George procedendo verso Montréal.
       Non era certo l'itinerario più breve, ma era una sorta di "percorso del cuore", poiché lo portava nel bel mezzo dell'area del conflitto franco-indiano, a cominciare da Fort William Henry, il celebre sito dell'assedio  immortalato da James Fenimore Cooper ne L'ultimo dei Mohicani.
       Erano luoghi noti, per Carlo, ma raramente riusciva a passarci vicino senza farvi almeno una sosta, atta ad alimentare la sua passione - mai spenta - per la storia militare.
        Il sole illuminava ancora quella splendida località lacustre e il traffico era di colpo aumentato, perché, anche se il periodo natalizio non era certo il più adatto per visitare la zona, in quanto troppo freddo, i numerosi e ricchi outlet commerciali di quella località erano un'attrazione festiva irresistibile per turisti e residenti.
       Fort William Henry non era ovviamente aperto, visto che la stagione delle visite andava da maggio a fine ottobre, ma a Carlo piaceva camminare lungo le rive del lago e intorno alle basse mura in legno del forte, ricostruito con gusto tipicamente statunitense sopra i resti dell'originale, con qualche disinvoltura storica e architettonica.
       Carlo amava guardare quel forte. In perfetta solitudine, si metteva nell'angolo più remoto del perimetro e immaginava come la costruzione avesse potuto essere nel 1757, nel corso dell'assedio postole dalle truppe francesi guidate dal marchese de Montcalm. Sognava. Amava essere nei luoghi della storia e percepirne il respiro, come se quest'ultima potesse passare attraverso di lui e penetrarlo fino alle viscere, in qualche maniera facendolo suo, in qualche modo rendendolo "prigioniero dei luoghi e dei tempi".
       Fu quella sensazione di cattività a farlo decidere di fermarsi, per quel che restava del giorno di Natale, a Lake George. Era quasi posseduto da quella località e, al tempo stesso, amava il suo più bell'albergo, il Sagamore, un lussuoso resort a cinque stelle dove aveva trascorso momento felici, in anni lontani, e dove amava ritornare, affascinato dal suo stile coloniale, dagli amplissimi spazi, da quella cultura dell'ospitalità che negli States è così diversa da quella della Vecchia Europa.
       Gli ci vollero pochi minuti in auto per arrivare al resort, che occupava una piccola penisola prominente sul lago. Era certo che avrebbe trovato posto, sebbene non avesse prenotato, in quanto la maggior parte di coloro che avevano scelto di trascorrere le vacanze natalizie in quel luogo incantato sarebbero arrivati non prima del pomeriggio di Santo Stefano.
       L'accoglienza fu come sempre molto professionale. Il rigore era la cifra comunicativa del Sagamore e il personale sapeva interpretarla alla perfezione.
       I prezzi, per la giornata di Natale, erano assolutamente ragionevoli per un albergo di quel livello, per cui Carlo decise di prendere una junior suite, in modo da poter usufruire di una zona giorno divisa dalla camera da letto, soluzione che prediligeva.
      La suite era molto ben arredata, con tanto di camino, ed era stata ristrutturata da poco, per cui risultava molto confortevole, pur se in fondo impersonale come molte stanze di albergo statunitensi.
       Si trastullò un po' a guardare lo splendido panorama che si poteva godere dall'ampio balcone, stando peraltro attento a non raffreddarsi troppo, in quanto la temperatura era rigida, poi incominciò a pensare in quale dei sette ristoranti dell'hotel avrebbe potuto cenare. Dopo una breve riflessione, la sua scelta cadde su "La Bella Vita", vale a dire sul più lussuoso locale del resort, un ristorante di cucina italiana che godeva di buona reputazione anche nelle guide enogastronomiche. Carlo era consapevole che una scelta del genere lo avrebbe obbligato a vestire di scuro e a mettersi come minimo una giacca, ma gli piaceva l'idea di poter mangiare del cibo di qualità abbinato a vini di prima classe, che rappresentavano una delle principali attrattive di quel ristorante.
       Prenotò via telefono un tavolo per le 8 e scelse di indossare un abito blu scuro con camicia bianca. Rinunciò alla cravatta, ritenendola superflua, ma impreziosì il suo aspetto con una bella pochette, anch'essa bianca.
       Quando, alle 20 in punto, Carlo si presentò al desk de "La Bella Vita", notò subito che il ristorante era assai poco frequentato: rari tavoli occupati, con qualche coppia o tranquille famigliole.
       Invitato dal maitre a scegliere il posto che preferisse, si rifugiò in un angolo tranquillo e appartato, dove vi erano tutti tavoli per due persone.
       Aveva appena iniziato a scorrere il menù, quando la sua attenzione venne distratta dalla comparsa di una donna di circa 45 anni, elegantemente fasciata in un tailleur nero, cui il maitre - certamente per facilitare il lavoro suo e dei camerieri - assegnò un tavolo accanto a quello occupato da Carlo.
       Nel sedersi, gli occhi della donna incontrarono per un attimo quelli di Carlo ed egli, per educazione, le fece un quasi impercettibile cenno con il capo, cui ella rispose allo stesso modo.
       L'interno del locale era in una boiserie color crème; i tavoli, ben distanziati, erano coperti da belle tovaglie bianche, mentre le sedie erano di colore marrone scuro. Nell'insieme, marcata era la sensazione di calore e gradevolezza dell'ambiente.
       Carlo scelse un menù basato su pesce di lago e accompagnato, per ogni portata, da differenti calici di vino. Amava infatti variare l'abbinamento tra vino e cibi, ed era fermamente deciso a gustare alcuni tra i grandi vini presenti nella cantina de "La Bella Vita".
        Stante la vicinanza tra i due tavoli, non poté fare a meno di guardare la sconosciuta: era alta, sicuramente al di sopra del metro e settanta; di fisico snello ma non minuto, semmai atletico, come di donna abituata alla pratica sportiva; i capelli erano castani, tendenti allo scuro, con una permanente strutturata a carré. Nell'insieme, la donna suggeriva l'idea di una businesswoman, forse fermatasi in quel resort per l'impossibilità di portare a termine un viaggio di lavoro o forse alla ricerca di solitudine.
       Sentendola dialogare con il maitre in merito ai piatti da scegliere, Carlo notò che la donna aveva un forte accento francese, il che portava a pensare che potesse essere una canadese, in particolare una québécoise, di quelle aree orientali del Québec dove più diffusa e radicata era la pratica della lingua di Molière.
       La cosa lo divertì: non amava granché il francese, ma lo trovava una lingua  particolarmente adatta al cibo, al vino, al sesso; dunque a cose piacevoli.
       Non aveva guardato alla donna, fin dal primo momento che l'aveva vista, con un particolare interesse sessuale, ma, minuto dopo minuto, ne aveva percepito una femminilità, studiata in ogni minimo gesto, che lo aveva presto convinto che si dovesse trattare di una donna caratterizzata da una forte componente di erotismo. Sorrise tra sé e sé, pensando a quali pensieri attraversavano la sua mente, ma non si sorprese più di tanto: la sua mente era abituata a cercare l'eros dovunque egli lo sentisse presente, evidentemente perché quello sessuale era uno degli stimoli più forti che essa era in grado di percepire e fare propri. E la cosa certo non lo turbava, anzi.
        Per un attimo, mentre cenava, si chiese se avrebbe fatto bene a cercare di intavolare una conversazione con quella donna misteriosa, ma quella prospettiva gli parve alquanto scontata e vagamente squallida, da womanizer alla ricerca di futili motivi per un banale "abbordaggio", per cui, quando ebbe finito di gustare la sua cena, si alzò rapidamente da tavola, fece nuovamente un rapido cenno del capo alla signora, che per tutto quel tempo era rimasta spesso impegnata in conversazioni al cellulare, e uscì.
       Carlo aveva preso un suite nella parte vecchia dell'albergo, quella strutturata su più piani, e, rientrato nella lobby, si diresse all'ascensore, visto che il suo appartamento era all'ultimo piano. Proprio mentre attendeva l'ascensore, tuttavia, si ricordò che aveva dimenticato uno dei suoi due notebook in auto e, non volendolo lasciare al freddo per la notte, uscì dall'albergo e si diresse al parcheggio esterno per prenderlo.
       Si stava avvicinando a passi lenti alla sua Lincoln nera, quando vide una donna che stava cercando di allontanarsi da un Suv trasportando una quantità notevole di valigie piuttosto voluminose. Si muoveva quasi barcollando, ma gli dava la schiena, per cui a Carlo parve normale, prima ancora che cavalleresco, offrirsi di darle un aiuto per trasportare tutti quei pesi fino alla lobby.
       Non si può dire se esista o meno un' "astuzia della ragione", o un destino, o il caso, ma grande fu la sua meraviglia quando, nell'interpellare la donna per offrirle in proprio aiuto, si accorse che era la misteriosa straniera del ristorante.
       Carlo pensò tra sé e sé che era un segno del destino e si accinse a giocare la sua partita.
       "Posso aiutarla, Madame?"
       La donna si voltò di scatto, con un moto di difesa, se non proprio di paura. Tuttavia, non appena riconobbe il suo commensale de "La Bella Vita", lo gratificò di un largo sorriso, che non era solo di sollievo, ma forse di soddisfazione perché a interpellarla fosse stato proprio lui, e non un altro.
       "La ringrazio. Non vedo come potrei rifiutare. Stavo cercando di portare nella mia suite il maggior quantitativo di bagaglio possibile, per non lasciarlo nel Suv. E' vero che questo resort sembra molto ben protetto, in termini di sicurezza, ma è piacevole avere le proprie cose con sé, no?".
       Carlo annuì e protese entrambe le mani, come per invitare la straniera a cedergli un po' di bagagli. Lei lo fece prontamente e le loro dita si sfiorarono.
       Fu un contatto sensuale, profondamente sensuale.
       Carlo era un convinto sostenitore del fatto che l'essenza della sensualità risiede nei piccoli gesti, in quelli più minimali e insignificanti, ma raramente gli era capitato di ricevere una scarica di sensualità così profonda da un contatto tanto fuggevole.
        Ne fu turbato e, per quanto reso esperto dagli anni, forse qualcosa lasciò trasparire e la straniera lo percepì. Oppure, più semplicemente, anche lei provò la medesima sensazione.
        Quel che è certo è che tra loro, dopo quel contatto, venne a crearsi una sorta di empatia, che entrambi percepirono immediatamente.
       Il percorso dal parcheggio esterno alla lobby era breve, ma ci volle tempo per compierlo, tanto erano carichi di bagagli vari.
       Una volta entrati nella grande lobby, la donna si diresse decisa verso gli ascensori, esclamando: "la mia suite è all'ultimo piano. Se non le spiace, avrei ancora bisogno di un piccolo aiuto".
        Profferì queste parole con grazia, senza ambiguità alcuna, e Carlo si limitò ad annuire, consapevole del fatto che non avrebbe potuto fare altro che scortarla fino all'ingresso della sua camera. Non che la prospettiva gli dispiacesse, anzi. Il suo turbamento stava aumentando, perché quella donna era davvero estremamente sensuale, di una sensualità naturale che diffondeva intorno a sé come un'aura, senza doversi atteggiare in alcun modo.
       Dato che le camminava qualche passo indietro, Carlo si dedicò a valutarne attentamente il fisico: l'altezza era certamente superiore agli uno e settanta e, grazie ai tacchi importanti che esibiva, sicuramente risultava ancora superiore. Il corpo non era magro, ma semmai tornito: seno importante, sedere sporgente, curve ben distribuite. Quello che balzava immediatamente agli occhi era che si trattava di un fisico atletico, tipico di una donna abituata a praticare sport, anche se Carlo non riusciva sul momento a figurarsi quale.
       Entrarono nel grande ascensore e rimasero in silenzio. Non era però un silenzio imbarazzato; semmai un silenzio che stava diventando complice. Era come se i due già sapessero dove stavano andando, e soprattutto perché... Si era infatti sviluppata tra loro, in tempi brevissimi, una chimica che poteva forse essere difficile da definire, ma certo non da percepire.
       Arrivati al terzo e ultimo piano (i piani erano solo tre, ma ogni piano aveva soffitti altissimi, tipici di una vecchia dimora degli ultimi decenni dell'Ottocento), dovettero percorrere lunghi corridoi, vuoti e totalmente silenti, per raggiungere la suite della straniera, situata forse nell'angolo più remoto dell'albergo.
       "L'ho chiesta io isolata" - si giustificò lei mentre camminavano lentamente. Nella lobby, per la verità, un facchino si era offerto di aiutarli, ma Carlo lo aveva bloccato con uno sguardo molto eloquente e il ragazzo aveva subito compreso che era preferibile desistere. Segno che la professionalità del personale del Sagamore sapeva anche essere molto discreta...
       "Ci siamo" - disse la sconosciuta mentre percorrevano un ultimo corridoio - "è qui, appena girato l'angolo".
       Si fermò davanti alla porta, giusto per poggiare a terra i bagagli ed estrarre la carta magnetica per sbloccare la serratura. Assolse rapidamente l'operazione, entrò nella suite e, nel farlo, invitò Carlo ad accomodarsi.
       Carlò notò come la suite fosse identica alla sua e, quasi in automatico, si diresse al vano che serviva da ripostiglio, dove posò le valigie che aveva portato fin lì.
       La straniera gli sorrise, compì anche lei la medesima operazione e, una volta che ebbe le mani libere, gli si parò innanzi dicendo: "E' tempo che badiamo alle buone maniere".
       "In effetti, non ci siamo ancora presentati", annuì Carlo.
       "Mi chiamo Charlène, Charlène de Rougier ", disse lei con un breve sorriso, tendendogli la mano.
       Carlo, con estrema naturalezza, abbozzò un baciamano ed ella apprezzò, come se fosse abituata a quella pratica così inusuale.
       Sorrise nuovamente e gli chiese: "Lei è europeo?"
       "Sì" - rispose lui - "italiano".
       Charlène parve sorpresa: "Caspita, un po' lontano da casa..."
       "Sono da qualche anno a New York per lavoro e non mi consentono mai di rientrare per le feste natalizie".
       "Crudeli!" - commentò lei - "Ma avranno i loro buoni motivi per tenerla con sé anche in questo periodo".
       "Io invece sono di Québec City, sono una québécoise, francofona, come probabilmente avrà già capito", sorrise vagamente autoironica.
        Non gli chiese che lavoro facesse, né gli disse il suo, ma lo invitò ad accomodarsi nel salottino e gli offrì da bere.
       Pareva perfettamente in controllo della situazione, ma anche Carlo lo era. La serata cominciava a farsi interessante...
       Carlo non aveva tattiche da mettere in atto od obiettivi da raggiungere, ma era fermamente deciso a provarci, convinto com'era del fatto che una forma di alchimia sessuale non scatta mai a caso, ma per una serie di fattori che andavano attentamente valutati e valorizzati, non buttati via.
      La sensualità di Charlène lo aveva colpito fin dal primo momento in cui l'aveva vista e l'attrazione fisica per lei aveva continuato a lievitare momento dopo momento. Tutto, in quella donna, aveva una palese componente sessuale, di una sensualità non sociale o più o meno deliberatamente seduttiva, ma semmai primigenia, consustanziale e dunque naturalissima. I suoi gesti non erano studiati e tanto meno artefatti, ma qualunque cosa facesse, anche versare un bicchierino di liquore, emanava un richiamo sessuale forte, sereno, consapevole.

                         (continua)


                                                           Piero Visani




       

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