mercoledì 29 luglio 2015

Il lavoro intellettuale


       Tra tutte le disgrazie che possono capitare a chi ha già avuto come disgrazia fondamentale quella di nascere in questo Paese, quella di svolgere un lavoro intellettuale è una delle peggiori.
       Non sto parlando di una professione riconosciuta: gli italiani amano molto le corporazioni, quindi in genere assumono un atteggiamento deferente di fronte ai membri delle medesime, specie se stimano che possano essere più o meno potenti.
      Sto semplicemente parlando del lavoro intellettuale in quanto tale, meno sottoponibile a classificazione strutturata.
       Avete mai provato a scrivere un testo o una ricerca di mercato al titolare di una PMI? Provate, poi mi direte.
       Il soggetto in questione, se e quando va bene, ha la licenza media (inferiore), ma si è fatto "sul campo", è un "uomo della strada", è cresciuto alla "scuola della vita" e ha i calli alle mani ("non come te, coglione di ghostwriter (ma che cacchio vuol dire 'sta roba?), con quelle mani da persona che non ha mai lavorato e quell'abito firmato, pieno di quelle lauree e master che servono a un cavolo").
      Geniale e fortunato com'è, il soggetto in questione è onnisciente e su tutto DEVE dire la sua. E' naturalmente manicheo, per cui tutto il BENE sta da una parte (in genere la sua...), tutto il MALE dall'altra e le sfumature sono qualcosa di cui ignora totalmente l'esistenza, specialmente se cerchi di articolarle in forma scritta.
       Sparge in un testo congiuntivi e condizionali (il cui utilizzo ovviamente ignora) come se fossero sale sulla pasta e trova sempre che i tuoi testi "non siano pregnanti". Nel momento in cui lo inviti a chiarire il concetto di "pregnante" va in tilt, in quanto è lontano dal pensiero astratto (ma consentitemi di dire: "da qualunque forma di pensiero") come una formica da un elefante, ma risolve il tutto con un eloquente gesto di disprezzo, accompagnato dalla fatidica frase: "Non si capisce niente, i miei interlocutori non capirebbero niente"!
       La prima cosa che ti viene in mente è che ciò è assolutamente normale, perché, se i suoi interlocutori sono come lui, non c'e speranza che capiscano alcunché, ma ovviamente devi abbozzare. Già non lavori quasi più per il settore pubblico, se ancora ti alieni i privati, sarà la fame...
       Così si procede, versione dopo versione, finché il testo non faccia sufficientemente schifo da piacergli. Sarà passato molto tempo e si saranno resi necessari parecchi rifacimenti, che inevitabilmente andranno ad incidere sulla parcella finale.
       Alla presentazione della medesima, l'urlo che leva "l'uomo che si è fatto da sé" arriva a qualche chilometro di distanza. Ti convoca, ti guarda con infinito disprezzo e ti dice: "ma vuole che le paghi così caro un testo che ho scritto quasi tutto io e che fa ancora schifo?".
       No, ovviamente. Lasci pure perdere. Mi dia l'elemosina che preferisce. Anzi, guardi, non me la dia proprio. Me ne farò una ragione (citazione renziana che ahimé gli sfugge...).
       Quanto al dubbio che il testo faccia così schifo perché ha preteso di scriverlo lui, e di non lasciarlo scrivere a me, quello non lo assalirà mai.E questo mi basta.
       Torno a casa ridendo e ascoltando musica: uno dei privilegi di questo lavoro è di metterti a stretto contatto con i tuoi connazionali. E' per questo che mi considero da tempo apolide.

                                         Piero Visani