sabato 11 luglio 2015

La "peculiare istituzione", di Roberto Poggi

       L'amico Roberto Poggi, storico di qualità, ha scritto questo ampio saggio sulla schiavitù che mi è gradito pubblicare sul mio blog. Non sono forse completamente d'accordo su tutto, ma il confronto delle idee è ciò che auspico costantemente, senza censure, rimozioni o silenzi interessati.

Il prezzo richiesto nell’agosto del 1619 per i primi venti schiavi negri sbarcati da una nave da guerra olandese sulle coste della Virginia fu giudicato senza dubbio vantaggioso dai piantatori che non tardarono ad individuare nella schiavitù una soluzione definitiva al problema della carenza di manodopera bracciantile che stava paralizzando le loro attività. Prima di allora i piantatori virginiani avevano sperimentato senza successo il ricorso a forme di servitù temporanea, imposte a criminali condannati a lunghi periodi di lavoro forzato oppure ad emigranti disposti a ripagare con anni di lavoro servile il prezzo della traversata oceanica. Il clima insalubre delle piantagioni aveva decimato i lavoratori coatti provenienti dalla vecchia Europa. Quei pochi che erano riusciti ad acclimatarsi si erano mostrati tutt’altro che docili, poiché la grande disponibilità di terra e l’opportunità di poter costruire finalmente la propria fortuna li spingevano a rompere ogni vincolo contrattuale ed a ribellarsi ad ogni imposizione. La soluzione adottata nelle colonie inglesi per sopperire alla mancanza di manodopera fu tutt’altro che originale.
Intorno al 1510 la popolazione indigena di Cuba era quasi completamente estinta, erano stati gli schiavi acquistati sulle coste dell’Africa a prendere il posto degli indios sterminati dalle malattie provenienti dall’Europa e dalle durissime condizioni di lavoro imposte dai brutali colonizzatori spagnoli. La corona di Spagna aveva garantito grazie all’Asiento, cioè alla concessione, prima a compagnie private e poi a governi stranieri, del monopolio della fornitura di schiavi negri, il fabbisogno di braccianti per dissodare e mettere a frutto gli sconfinati territori del Nuovo Mondo. Tale imponente traffico di esseri umani si era rivelato talmente lucroso da spingere le potenze mercantili europee escluse dall’Asiento a dedicarsi attivamente al contrabbando. I negrieri riconosciuti dal re di Spagna ed i contrabbandieri avevano popolato di schiavi il Nuovo Mondo assicurandosi enormi profitti ed offrendo ai piantatori un costo molto contenuto della manodopera.
L’Africa, in cui la schiavitù era praticata da tempo immemorabile, poteva fornire schiavi in abbondanza. Si calcola che tra l’inizio del Cinquecento e la metà dell’Ottocento circa dieci milioni di africani furono trasferiti in catene nel continente americano. I capitribù dei villaggi affacciati sull’oceano Atlantico erano ansiosi di scambiare i loro prigionieri di guerra oppure le vittime di razzie tra le popolazioni dell’interno con rum ed altre merci di poco valore. I negrieri portoghesi, olandesi, francesi o inglesi potevano così realizzare profitti favolosi a fronte di investimenti relativamente modesti.
Lo sbarco dei primi venti schiavi sulle coste della Virginia non fu nient’altro che il tentativo, pienamente coronato dal successo, di creare un nuovo mercato alternativo a quello ormai saturo rappresentato dai possedimenti spagnoli. Nell’arco di qualche decennio la schiavitù si diffuse infatti in tutte le colonie inglesi del Nord America. Nel New England la struttura economica, caratterizzata dalla presenza di attività commerciali e manifatturiere e di una piccola proprietà terriera, mal si adattava ad una massa di braccianti resistenti alla fatica, ma privi di specifiche competenze, perciò la presenza di schiavi rimase molto limitata. Al contrario nelle colonie meridionali della Virginia, del Maryland, della Georgia e della Carolina gli schiavi importati dall’Africa divennero rapidamente la forza lavoro delle grandi piantagioni, rendendo la schiavitù la peculiare istituzione di quei territori, posta fondamento non solo di un sistema economico, ma di un’intera civiltà.
Nonostante la diseguale distribuzione degli schiavi sia le colonie meridionali, sia quelle settentrionali si arricchirono grazie alla schiavitù. I piantatori meridionali sfruttarono il lavoro degli schiavi, mentre i mercanti del New England, seguendo l’esempio di quelli europei, lucrarono sulla tratta dei negri, inserita nel contesto di un sistema commerciale triangolare. Le navi del puritano New England facevano rotta sui Caraibi per acquistare melassa e canna da zucchero da trasportare nei loro porti di partenza dove venivano trasformate in rum. Cariche di liquore le stesse navi volgevano poi la prua verso l’Africa, dove ogni barile veniva scambiato con uno schiavo. Il Middle Passage, cioè la traversata atlantica dalle coste occidentali dell’Africa sino ai porti delle colonie meridionali come quello di Charleston, poteva durare a uno a sei mesi a seconda delle condizioni atmosferiche. All’aumentare del periodo di navigazione cresceva la probabilità che il carico di merce umana si riducesse anche sensibilmente, a causa della scarsità delle razioni alimentari e del diffondersi a bordo di malattie come la dissenteria, lo scorbuto ed il vaiolo. Tra gli schiavi incatenati a coppie e costretti per giorni ad una immobilità pressoché totale non mancavano inoltre i casi di suicidio. Per massimizzare i loro profitti i negrieri non dovevano fare altro che sovraffollare le loro stive, sfruttare i venti più favorevoli e distribuire quel tanto di cibo e di acqua sufficienti a tenere in vita i loro prigionieri. Dopo aver venduto il loro carico umano ai mercanti di schiavi di Charleston, di Savannah o di Annapolis, le navi negriere tornavano a fare rotta verso i Caraibi per caricare altra melassa ed altra canna da zucchero da cui ricavare rum da offrire ai capitribù del golfo di Guinea.
L’orrendo commercio di esseri umani del Middle Passage rimaneva così invisibile alle comunità puritane del Massachusetts o del Rhode Island che prosperavano sulla tratta degli schiavi senza vederli mai sbarcare nei loro porti. L’opinione pubblica del New England, composta da artigiani, piccoli proprietari terrieri e marinai, era così tenacemente avversa alla concorrenza rappresentata dal lavoro servile che già alla fine del Settecento impose in quei territori l’abolizione della schiavitù. Tale misura non significò tuttavia né una affermazione della parità di diritti tra bianchi e neri, né tanto meno l’abolizione della tratta atlantica.
Il continuo afflusso di schiavi nelle colonie meridionali finì per allarmare la classe dirigente, preoccupata dai rischi per l’ordine pubblico generati dalla crescita della popolazione africana e soprattutto dal crollo dei prezzi dei negri, su cui i piantatori avevano investito una parte rilevante della loro ricchezza. Prima dell’indipendenza dalla corona inglese i governi sudisti, a cominciare da quello della Virginia, tentarono di vietare la tratta atlantica, ma si scontrarono con la netta opposizione di Londra, che non era disposta a penalizzare gli interessi dei propri mercanti. Sciolto ogni vincolo con la madrepatria, la Virginia si affrettò a vietare la tratta, ma altri stati come la Georgia ed il Sud Carolina non poterono fare altrettanto. Durante la guerra di indipendenza quei territori erano stati occupati dalle truppe inglesi che avevano provveduto a liberare gli schiavi per punire i piantatori ribelli. La necessità in alcuni stati di riprendere la più presto l’attività produttiva con l’importazione di nuovi schiavi e la volontà dei negrieri del New England di continuare a fare affari finirono per imporsi nel 1787 in seno alla Convezione costituente, che rifiutò di abolire la tratta nell’Unione.
Anche il parlamento del territorio della Louisiana, acquistata dalla Francia nel 1803, si affrettò a consentire l’importazione di schiavi africani per assecondare la forte richiesta del mercato. Nei primi anni dell’Ottocento entrarono nel territorio degli Stati Uniti tra i 75.000 ed i 100.000 nuovi schiavi. Soltanto una piccola parte di essi fu destinata a sostituire la massa di braccianti dispersa durante la guerra di indipendenza, la maggior parte fu invece impiegata in un poderoso aumento della produttività delle piantagioni di cotone, reso possibile da una innovazione tecnologica. Nel 1797, un giovane studente, Elia Whitney, inventò una sgranatrice meccanica per il cotone che assunse ben presto la denominazione di cotton gin, abbreviazione di cotton engin. Prima di allora il cotone era sgranato a mano, un uomo ben addestrato poteva produrne circa mezzo chilo in un giorno. La prodigiosa invenzione di Whitney innalzò tale quantitativo sino a mezzo quintale.
In tutti gli stati meridionali dell’Unione furono abbandonate le vecchie coltivazioni, ovunque fu seminato cotone, che richiedeva una grande massa di schiavi per essere coltivato e sgranato. La produzione di cotone grezzo passò da meno di 4 milioni di chili nel 1796 ad oltre 46 milioni di chili nel 1816. Benché il prezzo del cotone grezzo fosse destinato a calare con l’incremento della produttività, per i piantatori meridionali si inaugurò un’era di grande prosperità. Il continuo aumento dell’estensione dei terreni coltivati a cotone e del numero di schiavi impiegati garantivano una prospettiva di rapido arricchimento a chiunque disponesse di capitali da investire.
Mentre la cotton gin trasformava profondamente il volto economico e produttivo degli stati meridionali, sull’altra sponda dell’oceano atlantico il governo britannico andava mutando il suo tradizionale atteggiamento benevolo nei confronti del commercio di schiavi. Dopo la bocciatura di diverse proposte di legge, presentate a partire dal 1792, finalmente il parlamento di Londra approvò nel 1807 lo Slave Trade Act, che poneva fuori legge il commercio degli schiavi in tutti i territori della corona inglese.
Gli Stati Uniti non poterono ignorare la netta presa di posizione inglese. Sotto l’impulso del presidente Jefferson, fiero oppositore, come il suo predecessore Washington, della schiavitù, benché proprietario di schiavi, il Congresso mise fuori legge la tratta atlantica a partire dal primo gennaio del 1808, lasciando però liberi gli stati meridionali dell’Unione di preservare la peculiare istituzione nelle loro legislazioni. Gli afroamericani liberi presero a celebrare tale data in luogo del 4 luglio. L’attività di contrasto al contrabbando, inizialmente fiacca e discontinua, si fece più incisiva dopo il 1820, quando la tratta atlantica degli schiavi fu assimilata alla pirateria. Il crescente impegno delle autorità federali non riuscì comunque a debellare il fenomeno. Ancora nell’aprile del 1861, quando le prime cannonate della guerra civile erano già state sparate, una nave negriera di Boston fu sequestrata con a bordo un carico di oltre 900 schiavi.
Benché persistente, il contrabbando non riuscì mai a soddisfare la crescente domanda di braccianti da parte dei piantatori meridionali. L’effetto più immediato della cessazione dell’importazione di schiavi fu quindi l’impennata dei prezzi che continuarono a lievitare sino alla vigilia dell’abolizione della schiavitù nel 1863. Ad alimentare il mercato interno di schiavi fu soprattutto la crescita vigorosa della popolazione nera, resa possibile dalle condizioni di vita mediamente buone garantite dai piantatori ai loro braccianti. Nel 1860 sui circa 31.500.000 abitanti dell’Unione poco meno di 4.500.000 erano neri, di cui 4.000.000 schiavi impiegati nelle piantagioni del Sud, dove costituivano il 40% dell’intera popolazione.
La proprietà degli schiavi era concentrata in poche mani. Degli otto milioni di bianchi residenti negli stati meridionali oltre sei milioni non possedevano schiavi. La maggior parte dei proprietari, circa 1.400.000, disponeva di una forza lavoro che oscillava tra uno e dieci schiavi, soltanto una ristretta élite di 200.000 piantatori possedeva più di venti schiavi.
Pochi o tanti che fossero, gli schiavi rappresentavano per i loro proprietari un investimento da tutelare, esattamente come gli altri animali da lavoro di cui disponevano.
“La maggior parte degli schiavi conosce la loro età tanto poco quanto i cavalli…” . Nel 1845 Frederick Douglass, lo schiavo fuggitivo destinato a diventare il primo leader abolizionista afroamericano, affidò a questa denuncia della sistematica disumanizzazione dei negri l’incipit della sua autobiografia. Per quanto moralmente deprecabile, l’assimilazione ad animali da lavoro garantiva agli schiavi, secondo il filosofo francese Felicité de Lamennais, autore nel 1840 di un saggio sulla schiavitù moderna, condizioni materiali invidiabili rispetto a quelle dei proletari in Europa agli albori della rivoluzione industriale. In quanto preziosi strumenti di lavoro acquistati a caro prezzo, gli schiavi, a differenza dei proletari, erano nutriti e protetti con grande cura dai loro proprietari. L’interesse dei piantatori a preservare ed accrescere il valore della loro proprietà costituiva per gli schiavi una protezione contro la fame, le malattie e la brutalità. Tale barriera però non aveva sempre la stessa efficacia, oscillava come il prezzo dei negri al mercato e poteva anche affievolirsi sino quasi a sparire per soggetti resi senza valore dall’età o dalle infermità. Douglass sfruttò ogni pagina del suo racconto per enfatizzare l’abietta venalità dei proprietari di schiavi che potevano prendersi cura come una figlia di una negra incinta di due gemelli, perciò portatrice nel suo ventre di un valore doppio rispetto alle aspettative, oppure condannare all’isolamento una vecchia mamie ormai cieca come la nonna dello stesso Douglass.
Una schiava capace di mettere al mondo molti figli valeva sul mercato da un quarto ad un sesto in più di una sterile. In alcune piantagioni la promiscuità dei rapporti non solo era tollerata ma addirittura incoraggiata allo scopo di accrescere il numero di capi del gregge umano dei proprietari. I sorveglianti delle piantagioni più grandi e talvolta i proprietari di quelle più piccole non si esimevano dal fornire il loro personale contributo all’incremento della natalità. Douglass fu separato dalla madre quando aveva appena un anno di vita e non conobbe mai il padre, benché gli insistenti pettegolezzi della piantagione lo identificassero nel suo padrone. La legge tutelava i bianchi, stabilendo che i figli nati da relazioni con schiave ereditassero la condizione della madre, senza poter rivendicare alcun diritto nei confronti del padre.
Il destino dei figli illegittimi dei padroni era talvolta drammatico. In Alabama nel 1853 una negra colpevole di aver ucciso suo figlio fu impiccata. Difronte al giudice tentò di giustificarsi dichiarando di aver voluto sottrarre il suo bimbo dalle feroci angherie della moglie del suo padrone che odiava quella creatura, poiché la considerava la prova vivente dell’adulterio del marito. Per preservare la loro quiete familiare ed evitare simili tragedie i padroni di solito provvedevano quanto prima a vendere le schiave madri dei loro figli.
Le razioni alimentari concesse ai braccianti erano spesso alquanto generose per coloro che avevano la fortuna di lavorare in una piantagione prospera e ben amministrata. In Virginia i negri ricevevano in media ogni settimana un chilo e mezzo di carne e quindici chili di farina di mais che in larga parte non erano destinati al consumo, ma alla vendita nei mercati cittadini per ricavare il denaro contante con cui acquistare i beni necessari ad integrare la dieta. In alcune grandi piantagioni del Mississippi venivano distribuiti due chili di bacon a settimana ad ogni bracciante, oltre a nove litri di granoturco. In mancanza di verdure da distribuire la quantità di bacon poteva essere aumentata sino a quattro chili e mezzo pro capite a settimana. Nella piantagione del senatore Butler nella Carolina del Sud, il più modesto quantitativo di bacon distribuito era integrato ogni settimana dalla fornitura di pane, verdure e latte a volontà.
In occasione delle festività natalizie era consuetudine in tutte le piantagioni donare ai negri melassa, caffè e tabacco in quantità variabili a seconda dei meriti individuali e della generosità dei padroni. La monotonia dell’alimentazione degli schiavi, incentrata su bacon e farina di mais, era inoltre attenuata dalla frequente concessione di piccoli campi ad uso familiare in cui coltivare verdure ed allevare pollame, conigli e maiali. Talvolta i piantatori erano disposti ad acquistare dai propri schiavi uova, pollame e verdure, fornendo loro una preziosa fonte di reddito aggiuntiva. Anche la caccia e la pesca erano di solite consentite ai negri sulle terre dei loro padroni. Nonostante le occasionali integrazioni, la dieta degli schiavi rischiava spesso di essere carente di sali minerali, proteine, piuttosto scarse nel bacon, e soprattutto di vitamine, preziose per prevenire l’insorgere di gravi patologie come il beriberi, lo scorbuto e la pellagra. Le parti più grasse del maiale ed il mais garantivano un elevato apporto calorico, ma non aiutavano lo schiavo né a resistere alla fatica di uno sforzo prolungato, né a proteggersi dalle malattie.
Se i grandi proprietari ostentavano una certa magnanima generosità verso gli schiavi, i piccoli erano invece propensi a lesinare anche sui generi di prima necessità pur di non erodere i loro profitti. Frederick Douglass, che trascorse l’infanzia nel Maryland in una piantagione di una trentina di schiavi, dovette convivere con la fame. L’unico alimento distribuito ai bambini era il mush, un pastone a base di farina di mais, versato in una sorta di trogolo da cui tutti, muniti soltanto delle proprie mani o di qualche conchiglia, dovevano servirsi. Chi sgomitando riusciva a farsi spazio attorno al trogolo poteva sperare, ingozzandosi voracemente, di saziarsi, gli altri dovevano rassegnarsi a patire la fame.
Peggiore della fame era soltanto il freddo. I bambini non ricevevano in dotazione nient’altro che un paio di camicie di tela grossolana lunghe sino alle ginocchia. Per proteggersi dal freddo il piccolo Douglass era solito indossare sopra la sua lacera camicia un sacco di juta che era riuscito a rubare.
Giacche, pantaloni, calze e scarpe erano riservati agli schiavi addetti al lavoro dei campi. Erano indumenti rozzi, ma funzionali, prodotti per lo più da alcune fabbriche specializzate del Rhode Island. La spesa per le scarpe ed il vestiario degli schiavi costituiva una voce piuttosto rilevante nel bilancio delle piantagioni ben amministrate. Il decoro dell’abbigliamento degli schiavi era spesso l’indice più affidabile della prosperità di un piantatore. A schiavi scalzi e stracciati corrispondevano per contro padroni sull’orlo della rovina.
Anche la qualità degli alloggi degli schiavi era molto variabile da una piantagione all’altra. Si potevano trovare casette bifamiliari, simili a cottage, imbiancate all’esterno ed intonacate all’interno, con soffitti in legno, due stanze da letto arredate con mobilio semplice ma funzionale, una cucina spaziosa munita di un camino di mattoni, un solaio, un gabinetto ed un orticello di pertinenza; oppure miserabili ed anguste capanne di tronchi, senza finestre, prive di ogni arredo, con un camino fatto di tavole impastate di fango attorno a cui gli schiavi erano costretti a dormire per terra avvolti in una rozza coperta. Talvolta le baracche degli schiavi era così piccole e basse da sembrare polveriere o ghiacciaie, piuttosto che capanne destinate ad ospitare esseri umani.
L’orario di lavoro era quasi sempre lo stesso in tutte le piantagioni: dall’alba al tramonto, sei giorni su sette. Il riposo domenicale, pur essendo previsto dalle leggi di alcuni stati, come la Louisiana, non era scrupolosamente rispettato. In Georgia e nella Carolina Meridionale era largamente impiegato il lavoro a cottimo. Per ogni bracciante erano fissati degli obiettivi produttivi, ad esempio arare in un giorno un acro di terreno con una coppia di buoi oppure mondare mezzo acro di risaia, raggiunti i quali lo schiavo era libero di tornare ai propri alloggiamenti a riposarsi. Questo sistema consentiva ai più vigorosi e capaci di concludere la loro giornata lavorativa all’ora di pranzo o nel primo pomeriggio. I piantatori avevano interesse a fissare degli obiettivi ragionevoli per evitare un precoce deterioramento della propria forza lavoro e per contenere il rischio di fughe e ribellioni. Se invece nella loro mente l’avidità prendeva il sopravvento sul buon senso, il lavoro per gli schiavi si trasformava in un supplizio atroce, da cui nessuna legge poteva proteggerli.
Era consuetudine in tutto il Sud concedere agli schiavi una settimana di vacanza ogni anno, tra Natale e Capodanno. Chi viveva lontano dai propri familiari impiegati in altre piantagioni poteva raggiungerli. Chi restava sulla terra del suo padrone era libero, dopo aver accudito gli animali, di trascorrere il tempo come meglio credesse. Alcuni si dedicavano alla produzione di piccoli oggetti di artigianato da vendere al mercato, altri, la maggior parte, si svagavano cacciando, pescando, suonando, danzando e soprattutto bevendo il whiskey ricevuto come strenna natalizia. Secondo Douglass erano gli stessi padroni ad incoraggiare l’ozio, gli eccessi ed il consumo di whiskey, allo scopo di confondere nella mente degli schiavi libertà e vizio. Dopo una settimana di danze e di bagordi alcolici, gli schiavi accoglievano la fine delle vacanze con la stessa grata soddisfazione con cui le avevano iniziate.
In alcune piantagioni la giornata di lavoro incominciava con il rituale dell’adunata, annunciata dal suono di un corno da caccia. Taluni sorveglianti erano soliti frustare o bastonare i ritardatari, senza mostrare indulgenza né per l’età, né per il sesso dei malcapitati. Fino all’ora di pranzo gli schiavi organizzati in squadre non avevano diritto a pause. La fatica e la monotonia del lavoro erano alleviate dai canti, tollerati dai sorveglianti che spesso non ne afferravano il significato più profondo. Secondo Douglass più gli schiavi erano infelici e maltrattati, più ricorrevano al canto come balsamo per lenire angosce e frustrazioni. Intrecciando su di una base ritmica rassegnazione e sofferenza, sogni di libertà ed invocazioni alla giustizia divina, i canti costituivano l’unica forma di espressione relativamente libera di cui gli schiavi disponevano. Una voce solista intonava semplici parole che esprimevano nostalgia per la propria donna, per il proprio focolare, oppure descrivevano la struggente bellezza dei colori del cielo e tutti gli altri ripetevano in coro. L’imposizione del cristianesimo agli schiavi trasformò progressivamente i canti in preghiere in cui l’aspirazione alla libertà ed alla giustizia assumevano una dimensione spirituale ed ultraterrena, che non veniva percepita né dai padroni né dai sorveglianti come una minaccia al loro potere.
Agli estenuanti orari di lavoro imposti non corrispondeva una elevata produttività. Anche in assenza di affidabili dati statistici, sono molteplici gli indizi sulla negligenza e l’incuria degli schiavi. Era convinzione comune tra i piantatori che i negri lavorassero poco e male, senza quell’intelligente partecipazione che un suolo ormai in gran parte depauperato avrebbe richiesto. Soltanto la costosa presenza di sorveglianti severi ed onnipresenti poteva garantire risultati produttivi apprezzabili. Nel 1855 un piantatore del Sud Carolina scriveva esasperato: “L’usura degli attrezzi della piantagione costituisce un vero tormento per tutti i piantatori che non possono permettersi il lusso di avere a portata di mano un buon meccanico tutti i gironi dell’anno. Gli aratri vanno in pezzi, le zappe finiscono chissà dove, i finimenti delle bestie da tiro sono in condizioni pietose, cosicché ogni momento si deve correre dal fabbro, dal carpentiere, dal conciatore e dal sellaio.”
Per contenere i danni alcuni piantatori dotavano gli schiavi di attrezzi ben poco maneggevoli e quindi per nulla efficienti, ma durevoli, come la “zappa da negro”, molto diffusa in Virginia, che pesava tre volte di più rispetto a quella impiegata al Nord dagli agricoltori liberi. In alternativa alla distribuzione di attrezzi pesantissimi, altri proprietari si rassegnavano ad acquistare attrezzi scadenti, destinati a resistere per breve tempo nelle mani degli schiavi. Pesantissimi o leggerissimi che fossero, gli attrezzi erano comunque inadeguati a favorire l’incremento della produttività di lavoratori come gli schiavi, comprensibilmente privi di ogni motivazione.
L’incuria degli schiavi non si limitava alle zappe, ma si estendeva anche agli aratri, agli erpici, ai coltivatori, alle seminatrici ed alle mietitrici, inducendo i piantatori a ridurre al minimo indispensabile l’investimento nelle attrezzature. Nel 1857 gli aratri di buona qualità prodotti per il mercato settentrionale costavano dai 15 ai 20 dollari, spendendo tra i 5 ed i 10 dollari se ne potevano acquistare di mediocri. Il valore stimato della maggior parte degli aratri impiegati al Sud oscillava tra i 3 ed i 5 dollari. Un piantatore del Mississippi riteneva, ad esempio, che i suoi 30 aratri non valessero più di 75 dollari.
Gli stessi piantatori che si accontentavano di aratri tanto leggeri da scalfire appena il terreno e così obsoleti da non differire a metà ottocento da quelli in uso un secolo prima, non erano disposti a lesinare sull’acquisto di una sgranatrice. Nella piantagione Tooke, in Georgia, dei 195 dollari investiti in attrezzature, 110 erano stati spesi per una cotton gin.
Sapendo di non poter contare su di una manodopera attenta, motivata e qualificata i proprietari meridionali erano orientati ad incrementare la produzione di cotone estendendo le aree coltivate, anziché ricorrendo all’ausilio della tecnologia e dei concimi. Su tale decisione pesava, più della carenza, certamente rilevante, di capitali, l’incuria degli schiavi. Persino l’impiego su vasta scala dei fertilizzanti sui campi di cotone avrebbe richiesto per sortire significativi effetti positivi un’attenzione meticolosa da parte dei braccianti, un’attenzione che non era logico attendersi dagli schiavi.
Dai registri di molte piantagioni risulta che nei due terzi dei casi le punizioni inflitte agli schiavi erano dovute alla negligenza ed all’inefficienza dimostrate durante il lavoro. La maggior parte dei piantatori sosteneva che la frusta fosse indispensabile, ma tendevano ad usarla con parsimonia e cautela per non danneggiare i propri investimenti.  L’architetto Frederick Law Olmstead, autore a metà Ottocento di un ampio resoconto dei suoi viaggi nel sud schiavista, intitolato The cotton kingdom, raccontò di aver assistito alla somministrazione di una sessantina di frustate ad una giovane schiava giudicata dal sorvegliante troppo indolente. Benché inorridito da quella violenza, Olmstead dovette constatare che dopo un simile trattamento la schiena della schiava non sanguinava neppure. Probabilmente lo scopo di quelle frustate era umiliare più che ferire.
Non tutte le punizioni erano così incruente. Douglass ancora fanciullo assistette impotente alla feroce punizione di sua zia, colpevole di essersi allontanata dalla piantagione senza permesso. Le urla strazianti della zia e l’immagine delle gocce di sangue che schizzavano dopo ogni frustata sul pavimento della cucina del padrone rimasero per sempre impresse nella sua mente. Una cugina appena sedicenne della moglie di Douglass fu uccisa a bastonate dalla sua padrona che l’aveva sorpresa addormentata accanto alla culla che le era stato ordinato di vegliare.
In tutti gli stati del sud schiavista esistevano leggi che comminavano pene severe a coloro che uccidessero, ferissero o torturassero uno schiavo, ma di fatto rimanevano lettera morta, dal momento che era fatto divieto ai negri di testimoniare contro i bianchi. Nonostante tale divieto, vi furono sporadici casi di lievi condanne di bianchi assassini o seviziatori di schiavi.  La riprovazione sociale intimoriva i violenti ben più del rigore della legge. L’opinione pubblica del Sud non tollerava la crudeltà verso gli schiavi, i proprietari che si guadagnassero la poco invidiabile fama di “ammazza-negri” rischiavano di perdere del tutto il rispetto delle loro comunità e persino di subire gravi ritorsioni. Nel 1834 a New Orléans si era sparsa la voce che una ricca proprietaria seviziasse i suoi schiavi. Una sera una folla inferocita fece irruzione nella dimora della signora, trovando alcuni schiavi incatenati con evidenti tracce di sevizie. Quella prova sarebbe bastata a giustificare il linciaggio della crudele padrona, se non fosse riuscita ad abbandonare la sua casa per tempo.
Il rischio di infangare il proprio buon nome ricorrendo ad eccessi di violenza contro gli schiavi era comunque compensato dai prodigi produttivi che il morso della frusta poteva compiere. Inasprendo, a caro prezzo, la sorveglianza alcuni proprietari riuscivano a triplicare il rendimento degli schiavi in occasione del raccolto. La determinazione dei sorveglianti doveva però essere assolutamente incrollabile. Olmstead vide al lavoro una trentina di schiavi, in prevalenza donne, intenti a riparare una strada della Carolina meridionale. Il sorvegliante cavalcava tra di loro, facendo schioccare la frusta ed incitandoli senza posa, ma appena giungeva ad un capo della fila, quelli dall’altra parte smettevano immediatamente di lavorare e viceversa.
Un sorvegliante del Mississippi si vantò con Olmstead di non provare nessuna emozione ad infliggere punizioni corporali agli schiavi e di essere pronto persino ad ucciderli in caso di insubordinazione, senza provare alcun rimorso di coscienza. Douglass ebbe modo di incontrare nei suoi anni di schiavitù questo tipo umano di sorvegliante, freddo ed implacabile, che non parlava se non per ordinare e non ordinava se non per essere obbedito alla lettera. Il sorvegliante Gore era parsimonioso con le parole, e generoso con le frustate, la sua ferocia era uguale soltanto all’indifferenza che mostrava commettendo gli atti più inumani nei confronti degli schiavi sotto la sua custodia. Un giorno decise che uno schiavo, di nome Demby, meritava una punizione. Non appena Gore lo colpì, Demby corse via, andandosi ad immergere fino alle spalle in uno specchio d’acqua a pochi passi dal campo. Gore lo avvertì che lo avrebbe chiamato tre volte, poi se non fosse uscito dall’acqua lo avrebbe ucciso. Dopo il terzo appello senza risposta, Gore puntò con calma il suo fucile e fece fuoco, centrando in pieno la testa del povero Demby. Il proprietario della piantagione non ebbe nulla da obiettare al comportamento di Gore quando questi gli spiegò che la morte di Demby era stata inevitabile per non rischiare di allentare la disciplina tra gli schiavi.
Quando il rigore della disciplina ed i ritmi di lavoro si facevano insopportabili, gli schiavi ricorrevano alla fuga. Tra la Virginia e la Carolina settentrionale si estendeva un’ampia zona paludosa, detta Dismal Swamp, che con le sue foreste inestricabili offriva un nascondiglio sicuro a numerosi fuggiaschi. Una alternativa alla sopravvivenza in condizioni estreme, tra gli acquitrini popolati di insetti e serpenti, era raggiungere gli stati settentrionali, dove il movimento abolizionista poteva garantire protezione e soccorso. Dall’inizio dell’Ottocento sino alla guerra civile si sviluppò dagli stati meridionali sino al Canada una vasta rete di itinerari segreti e di rifugi chiamata underground railroad, ferrovia sotterranea, volta ad assicurare agli schiavi una via di fuga.
La crescente determinazione degli abolizionisti a sostenere ed incoraggiare gli schiavi a riprendersi la loro libertà finì per urtare la suscettibilità dei piantatori meridionali, che usarono tutta la loro considerevole influenza politica sul Congresso per ottenere una legge nettamente repressiva. Il Fugitive Slave Act, approvato nel settembre del 1850, si rivelò per il sud un rimedio peggiore del male. Tale legge, consentendo ai proprietari di reclamare un schiavo fuggiasco in qualunque stato dell’Unione presentando una semplice dichiarazione, senza che al presunto schiavo venisse concesso di porre il suo caso davanti ad una giuria popolare ed obbligando gli agenti polizia e le corti federali a provvedere alla cattura ed alla riconsegna dei fuggiaschi, non solo si rivelò ben presto di fatto inapplicabile, in quanto lesiva sia della sovranità degli stati, sia del diritto alla difesa degli imputati, ma suscitò anche una viva indignazione che si estese a fasce dell’opinione pubblica del nord prima di allora neutrali o indifferenti al tema della schiavitù.
Dopo l’approvazione della legge sugli schiavi fuggitivi, la ferrovia sotterranea poté quindi contare su di un maggior numero di persone disposte a prodigarsi per strappare i neri dalla loro condizione di schiavitù, tuttavia il numero di schiavi che riuscirono a mettersi in salvo in Canada o altrove fu nel complesso irrisorio. Si stima che su una popolazione di circa quattro milioni di schiavi non più di un migliaio ogni anno riuscirono a conquistarsi la libertà. A molti di coloro che fallirono i piantatori riservarono dure punizioni.
Olmstead apprese che in Georgia un sorvegliante era solito strappare con le tenaglie un’unghia di un piede agli schiavi fuggiaschi. Ad ogni fallito tentativo di fuga il numero di unghie strappate aumentava. In Alabama un altro sorvegliante confessò al curioso architetto del Connecticut che quando i suoi cani raggiungevano uno schiavo fuggiasco non sempre li richiamava, se lo schiavo opponeva resistenza lasciava che lo sbranassero.
Non tutti i proprietari ritenevano indispensabile tanta brutalità. Il senatore del Mississippi Jefferson Davis, destinato a ricoprire la carica di presidente della Confederazione, affidò ad un suo schiavo di fiducia il compito di organizzare e sorvegliare i lavori nella sua piantagione, senza ricorrere alla frusta. Il vescovo episcopaliano della Louisiana, Leonidas Polk, che durante la guerra civile raggiunse il grado di tenente generale nell’esercito confederato, nutriva verso i propri schiavi la stessa cieca fiducia del senatore Davis. Un piantatore virginiano dichiarò ad Olmstead tutto il proprio disprezzo per i sorveglianti che ai suoi occhi non valevano come gentiluomini la metà di uno schiavo. La descrizione lasciataci da Douglass di alcuni sorveglianti pare confermare tale opinione. Uno di essi, di nome Plummer, era “…un miserabile ubriacone, un bestemmiatore empio ed un mostro feroce …sempre armato di una frusta fatta di pelle di vacca e di un grosso e pesante bastone…”. Era solito sfregiare così orribilmente il volto delle schiave da suscitare la collera del suo datore di lavoro, che non era noto per essere umano e conciliante.
L’indolenza, la trascuratezza e la fuga non erano le uniche cause delle punizioni. L’abitudine a rubare era diffusissima tra gli schiavi. Un fiero critico della schiavitù come Jefferson spiegava tale inclinazione come la naturale tendenza dello schiavo a riprendersi qualcosa da colui che gli prendeva tutto. L’approccio filosofico di Jefferson non era certo condiviso da tutti i piantatori del Sud. Il colonnello Lloyd, uno dei padroni di Douglass, per proteggere i frutti del suo rigoglioso giardino dai continui furti escogitò un ingegnoso stratagemma: fece cospargere di catrame la recinzione. Ogni schiavo che fosse sorpreso con macchie di catrame sugli abiti o sulle mani era considerato, anche in assenza di altre prove, colpevole di furto e severamente frustato.
Per gli schiavi che si lamentavano delle razioni alimentari distribuite o che, spinti dalla fame, allungavano le mani sui beni dei loro padroni era spesso prevista, secondo Douglass, una punizione più efficace della frusta: costringerli ad ingozzarsi rapidamente sino a vomitare. Una volta che lo schiavo era del tutto disgustato da ciò che aveva rubato, il sorvegliante poteva finalmente frustarlo, ricordandogli quanto fosse equilibrata la dieta stabilita per lui dal suo padrone.
Oltreché indolenti, negligenti, poco produttivi e all’occasione ladri, gli schiavi erano considerati dai loro padroni del tutto privi di versatilità. Svolgevano piuttosto male un solo lavoro ed opponevano una tenace resistenza passiva ad ogni innovazione anche minima della routine a cui erano stati abituati. Questa caratteristica degli schiavi più ancora delle altre frenò lo sviluppo dell’economia sudista. Un accurato esame dei registri delle piantagioni e dei dati contenuti nei prospetti statistici dei censimenti rivela che le somme pagate per retribuire gli artigiani erano considerevoli e che la produzione di manufatti era alquanto scarsa.
Diffidando nelle capacità e nell’efficienza dei propri schiavi, i piantatori non si arrischiarono mai ad investire in modo consistente nella produzione di tessuti. Alla vigilia della guerra civile il Sud produceva circa quattro quinti del cotone grezzo mondiale, tuttavia i cotonifici sudisti non valevano che un decimo di quelli degli Stati Uniti. La mancanza di versatilità della manodopera servile impedì non soltanto l’avvio di attività industriali su larga scala, ma anche la produzione dei manufatti destinati a soddisfare i fabbisogni più elementari delle piantagioni. Secondo i dati del censimento del 1860, il 58% dei grandi piantatori delle contee del Mississippi avevano una produzione di manufatti addirittura nulla, analoga era la situazione in quasi tutte le contee della Georgia.
Negli anni cinquanta un giornale di Richmond stimava che il Sud spendesse ogni anno cinque milioni di dollari per l’acquisto di scarpe e stivali provenienti dal Nord. Nonostante la semplicità dei metodi di produzione delle scarpe a metà Ottocento, che non richiedevano né costose attrezzature, né spiccate abilità manuali, i piantatori ritenevano più conveniente rifornirsi sul mercato settentrionale, a causa della bassissima produttività degli schiavi addetti ad una attività manifatturiera. Nemmeno i piantatori più capaci e determinati a sottrarsi alla dipendenza dall’industria calzaturiera del Nord riuscivano a raggiungere l’autosufficienza mantenendo in ordine i loro conti. Uno di essi, il giudice Cameron del Nord Carolina, che possedeva cinque piantagioni e 267 schiavi, dovette ad esempio arrendersi all’evidenza dei conti e rassegnarsi ad acquistare sul mercato settentrionale più della metà delle scarpe necessarie per calzare i suoi negri.
Come dimostrano i registri contabili delle piantagioni, gli schiavi stentavano persino a svolgere mansioni molto semplici che non richiedevano raffinate competenze. Piantatori che possedevano a volte centinaia di schiavi erano costretti a ricorrere a lavoratori liberi per far eseguire piccoli interventi di riparazione o manutenzione degli attrezzi, come l’affilatura di aratri e falci. Anche l’edificazione dei rozzi alloggiamenti degli schiavi era quasi sempre affidata a manovali ed artigiani liberi.
La maggior parte delle piantagioni non riusciva a raggiungere neppure l’autosufficienza alimentare. Erano gli allevamenti di suini del nord a fornire sia la carne di prima qualità destinata alle mense dei piantatori, sia quella scadente riservata agli schiavi. Ad impedire un adeguato sviluppo dell’allevamento di suini e di bovini non erano né le caratteristiche del suolo, né le condizioni climatiche, ma la mancanza di capitali dei piantatori e soprattutto la negligenza degli schiavi nell’accudire gli animali. I tentativi dei piantatori di trasformare i braccianti in allevatori avevano spesso esiti così disastrosi da rendere preferibile che il bestiame vivesse per gran parte dell’anno allo stato brado. Gli animali che in questa condizione di semiabbandono riuscivano comunque a sopravvivere risultavano inevitabilmente deboli, vulnerabili alle malattie e poco produttivi. I pochi piantatori che, mettendo in gioco tutto il loro talento gestionale, riuscirono ad accrescere il proprio patrimonio zootecnico consideravano gli schiavi del tutto inutili per la cura degli animali.
La specializzazione degli schiavi avveniva dunque piuttosto di rado, poiché le piantagioni avevano più bisogno di braccianti per raccogliere il cotone che di artigiani per costruire e riparare o di addetti alla cura del bestiame. Inoltre, lo sviluppo di competenze negli schiavi era considerato dai piantatori come un elemento potenzialmente capace di sovvertire la disciplina. All’acquisizione di capacità professionali corrispondevano inevitabilmente incentivi, privilegi, riconoscimenti che rischiavano di innescare un processo di emancipazione che, per quanto larvato, i piantatori non potevano tollerare.
Il divieto, introdotto in almeno un terzo degli stati del Sud, di insegnare a leggere e scrivere agli schiavi rappresenta la prova più evidente della diffusione del timore che lo sviluppo delle competenze dei negri fosse l’anticamera dell’emancipazione e quindi della sovversione degli equilibri sociali. Benché nessuno stato meridionale disponesse di un apparato burocratico e poliziesco in grado di dare piena applicazione a tale divieto, si registrarono sporadici casi di proprietari puniti con lievi pene per aver istruito i propri schiavi. Queste rare condanne esemplari non bastarono ovviamente a dissuadere quei proprietari che, per il proprio tornaconto o per spirito umanitario, ritenessero indispensabile elevare culturalmente i loro schiavi.
I timori dei conservatori non erano tuttavia immotivati. Douglass identificò l’avvio del suo processo di emancipazione nel giorno in cui la moglie del suo padrone decise di incominciare ad insegnargli l’alfabeto.  Essendo nata e cresciuta al Nord, la signora Auld non vide nulla di male nell’istruire uno schiavo adolescente, suscitando così la collera del marito, secondo cui un negro non avrebbe dovuto conoscere nient’altro che la più cieca obbedienza. Il perentorio divieto del signor Auld di proseguire le lezioni appena incominciate convinse il giovane Douglass che il sentiero che conduceva dalla schiavitù alla libertà passava attraverso l’alfabeto. Da quel giorno con incrollabile determinazione mise in atto ogni stratagemma per imparare nuove parole e procurarsi carta stampata sui cui esercitarsi. Ogni pagina che riusciva a leggere rafforzava il suo desiderio di libertà.
Un altro momento cruciale del processo di emancipazione di Douglass coincise con l’acquisizione  di specifiche competenze professionali. Uno dei suoi padroni decise di cederlo in prestito ad un costruttore navale di Baltimora. Iniziò così per Douglass un durissimo apprendistato come carpentiere navale, in cui anziché rispondere all’arbitrio di un solo padrone, dovette sottostare agli ordini di trenta operai, ciascuno dei quali si sentiva autorizzato a comandarlo a bacchetta. La difficile convivenza con gli operai bianchi gli costò più di una bastonatura, nel corso di una di esse rischiò persino di perdere un occhio. Tuttavia né il disprezzo dei colleghi, né le percosse subite gli impedirono nell’arco di qualche mese di imparare un mestiere. Cessò quindi di essere uno schiavo come tanti altri, cioè una stupida bestia da soma per diventare un lavoratore che i costruttori navali erano disposti a contendersi a caro prezzo. Prestando la sua opera come artigiano Douglass poteva guadagnare fino a nove dollari al giorno, poco meno di un lavoratore bianco. Del denaro che guadagnava però non gli restava in tasca che qualche centesimo, concessogli magnanimamente dal suo padrone per dimostrargli l’apprezzamento per il suo impegno. Quella mancia umiliante costituì agli occhi di Douglass la prova che perfino il suo padrone si sentiva in colpa a derubare del tutto un lavoratore del suo salario. La raggiunta consapevolezza di poter fare da sé, di potersi mantenere senza dover contare sulla benevola protezione di un padrone rese Douglass quanto mai determinato ad aggiungere alla libertà spirituale, che aveva conquistato con l’istruzione, quella materiale, rompendo definitivamente le proprie catene.
Tra i proprietari la predicazione religiosa era altrettanto temuta dell’istruzione e della formazione professionale. Visitando un cimitero di Savannah, in Georgia, Olmstead si imbatté nell’epitaffio di Andrew Brian, pastore della prima Chiesa Battista negra locale, su cui era scritto che egli era stato imprigionato, frustato e torturato per aver predicato la parola del Signore.
Quando Douglass, approfittando dell’atteggiamento tollerante del suo padrone del momento, organizzò all’interno della piantagione una scuola parrocchiale per insegnare agli altri schiavi a leggere le Sacre Scritture dovette subire la violenta reazione di altri piantatori meno illuminati che con la forza imposero la fine delle lezioni.
Secondo il giudizio di Olmstead, in molte piantagioni la religione era ridotta a poco più di una farsa. Certamente non mancarono proprietari come il vescovo Polk che, animati da un sincero spirito cristiano, si impegnarono personalmente nell’educazione religiosa dei propri schiavi. Tuttavia all’ostentazione di fervore religioso da parte dei piantatori non corrispondevano necessariamente né un trattamento più umano degli schiavi, né un maggiore impegno nella loro educazione spirituale. Douglass riteneva che i padroni più detestabili e spietati fossero proprio quelli che usavano la religione come uno strumento di oppressione per sacralizzare il loro illimitato potere. Uno di essi, lo stimato reverendo Digby Hopkins, instancabile predicatore della Chiesa Metodista Riformata, era solito ripetere ai suoi schiavi questa massima: “Che uno schiavo si comporti bene o male, è compito del suo padrone frustarlo di tanto in tanto, per impedirgli di dimenticare l’autorità del suo padrone”.
Secondo il giudizio di un acuto osservatore della società come Alexis de Tocqueville, che nel 1831 visitò gli Stati Uniti intrattenendo numerose conversazioni con esponenti di ogni estrazione e di ogni provenienza, l’abitudine ad esercitare un potere arbitrario, come quello descritto dalla massima del reverendo Hopkins, aveva corrotto il carattere dei piantatori sino al punto da renderli arroganti, ottusi, indifferenti al progresso economico e disinteressati al denaro. Il disprezzo per il lavoro manuale, considerato umiliante per un bianco, aveva spinto l’élite meridionale ad adottare uno stile di vita non troppo dissimile da quello dell’aristocrazia europea, oziosa, priva di industriosità, dedita ai piaceri della caccia ed alle prove di destrezza, proterva nella difesa dei propri privilegi e del proprio onore.
Le affinità caratteriali rilevate da Tocqueville tra gli schiavisti americani e gli aristocratici europei, per quanto convincenti, non devono tuttavia trarre in inganno. L’immobilismo dell’economia sudista, orientata ad espandersi per sopravvivere, ma non ad evolversi, fu determinato anche da insormontabili difficoltà materiali e non solo da un condizionamento psicologico.
La ricchezza del sud, cioè la massa di schiavi che possedeva, era al tempo stesso la sua irrimediabile debolezza Avendo investito gran parte della proprie sostanze nell’acquisto di schiavi, i piantatori non disponevano di capitali né per introdurre nuove tecnologie, né per diversificare le proprie attività. Gli stessi schiavi rappresentavano inoltre un imponente ostacolo a qualsiasi cambiamento. Il trasferimento di nuove competenze agli schiavi oltreché costoso e dall’esito incerto, a causa dello stato di arretratezza culturale in cui per secoli era stata lasciata languire la popolazione nera, sarebbe stato anche estremamente rischioso per la tenuta degli equilibri della società meridionale. Rimuovere l’indolenza e la passività degli schiavi per trasformarli in lavoratori versatili e produttivi avrebbe minato dalle fondamenta l’economia schiavista, innescando un inesorabile processo di emancipazione. Qualsiasi politica che scalfisse la peculiare istituzione era perciò inaccettabile per i piantatori. Poiché nessuna classe dirigente si è mai suicidata, il sistema economico e sociale schiavista dovette essere abbattuto da un catastrofico evento esterno: quattro anni di guerra civile ed oltre mezzo milione di morti.





ROBERTO POGGI
roberto_poggi@yahoo.it


Bibliografia

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