martedì 15 dicembre 2015

Quel che resta del giorno

       Ci fu un tempo in cui la mia vita era una vita, con le sue gioie (invero non molte) e i suoi dolori: progetti, speranze, battaglie. Cose che andavano bene e altre che andavano male, il tutto in una dinamica complessivamente in movimento. Nulla era facile, ma, con le unghie e con i denti, qualcosa si portava a casa; a volte, con un po' di fortuna, anche molto.
       A un certo punto, quel meccanismo difficile, ma in un certo modo ancora gestibile, si è rotto. Per quanto mi riguarda, ciò è avvenuto a partire dalla seconda metà del 2008. Si diventa un bersaglio privilegiato, oggetto di offensive varie, mentre il lavoro si riduce progressivamente, i clienti cercano rifugio all'estero, i mercati si comprimono.
       Ho cercato di lottare, ho combattuto, combatto e combatterò, ma mi sono state sottratte a forza tutte le piccole gioie della vita. Sono un numero di codice fiscale (e sono già fortunato, l'ho avuto molto tardi, mentre mio figlio l'ha avuto alla nascita e dovrà sputare lacrime e sangue per togliersi di dosso il bracciale elettronico riservato dai democratici agli schiavi a vita), non ho altre forme di identità e certo non sono un cittadino. Sono un ricettore terminale di raccomandate di vari enti di Stato, che mi chiedono soldi, soldi e soldi.
       Sto provando l'incubo assoluto della vita nel Leviatano ed è un'esperienza sicuramente formativa, perché così capisci che esso ti priva di gioia di vivere e della possibilità di nutrire emozioni, quali che siano. Sono un bancomat vivente, ma - a differenza di molti miei connazionali - non sono contento di esserlo. Per di più, in questo mio triste "quel che resta del giorno", non sono nemmeno un maggiordomo e neppure un servo, ma un semplice schiavo.
      Molto spesso mi interrogo dove e come possa essere nato tutto questo, e come io riesca a sopportarlo. In realtà, non lo sopporto più, ma gran parte di me è spenta. Non provo più piacere, non provo più gusto per il lavoro, anche perché non lavoro per me, ma per i miei sfruttatori. A me non resta niente, e non solo per balzelli vari, ma perché coloro che sono stati miei clienti per anni sono ovviamente fuggiti il più lontano possibile dall'Italia. E io li capisco benissimo e non li biasimo certo. Faccio il minimo indispensabile a sopravvivere e valuto dove e come fuggire.
       Quello che mi manca terribilmente non è il gusto per la vita, che mi è rimasto, e forte, ma il senso di un'esistenza del genere, assolutamente servile, prima di qualsiasi diritto e satura solo di doveri e di incombenze fiscali da assolvere.
      Non penso più a niente, forse sogno il mio "giorno di ordinaria follia". Non ho più desideri, speranze o ambizioni. Soffro come un cane. Mi tiene in piedi solo una cosa: sono una botte satura di odio. E' la mia nuova linfa vitale, cui attingo abbondantemente in ogni momento della giornata.

                         Piero Visani