sabato 2 aprile 2016

La tragedia di un uomo ridicolo

       L'atmosfera dell'elegante ristorante milanese è tranquilla, ovattata. All'ora di pranzo i clienti non sono molti. Fuori pioviggina appena.
      Seduti in un angolo appartato, il mio amico ed io affrontiamo normali questioni di lavoro.
       Ad un tratto, il suo viso di persona sincera e vera si illumina, come colpito da uno stimolo interiore, e mi chiede: "ogni tanto mi sorprendo a pensare dove saremo tutti tra 8-10 anni. Tu dove pensi che sarai?".
       Rimango vagamente interdetto. Non sono temi che io tratti (o ami trattare) abitualmente.
       "Lavorerò", rispondo.
       "Non andrai in pensione?, mi chiede quasi stupito.
       "Mai pensato a un'eventualità del genere e, nel caso, non potrei".
       "In che senso?", ribatté lui.
       "Non mi sono mai preoccupato della cosa", gli chiarisco. "E' la maggiore preoccupazione degli abitanti di questo Paese. Non volevo condividerla con loro, non voglio condividere nulla, con loro".
      "Io pensavo che volessi smettere", obietta lui spalancando i suoi occhioni ingenui e sinceri. "Pensavo che volessi ritirarti in qualche posticino tranquillo, a goderti la vita".
       "Non potrei, nemmeno se volessi, e non voglio. La prospettiva mi terrorizza. E poi, non potrei permettermelo".
       L'amico tace, come sovrappensiero, poi mi guarda nel profondo degli occhi e mi dice: "da quando ti conosco, mi sono sempre chiesto come mai un uomo delle tue capacità non abbia avuto un grande successo".
        Sorrido ironicamente: "le cause sono molte, ma non è il caso di parlarne qui".
       Lui insiste: "dovresti dirmi la verità, prima o poi".
       "Preferirei di no, se non ti spiace. La so bene la verità, potrei declinartela per filo e per segno, ma a che servirebbe? Me le porto dietro, tutte queste cose. Le conosco bene, ma non ho pentimenti o rimpianti. Ho fatto quello che ritenevo giusto. Ho percorso piani inclinati, spesso in salita. Ho seguito il mio istinto. Quello che avevo mi bastava o me lo facevo bastare. Per il resto, non sono tipo da proskunesis e ho un carattere difficile. E tutto quello che poteva andare male - se vogliamo aggiungere un piccolo particolare - è andato male..."
       "Altri avrebbero smesso o si sarebbero adeguati", dice lui, per rincuorarmi.
       "Combatto non per dare soddisfazione ai nemici", sogghigno, "e poi combattere mantiene giovani!".
       A questa mia battuta lui sorride convinto: "obiettivo raggiunto quest'ultimo, obiettivo raggiunto!".
           Ho pensato parecchio a questo scambio di battute nelle 24 ore successive, ma non ho più molto da dire. Come molti vecchi guerrieri, ho solo ferite e cicatrici, tuttavia non solo non ho perso il gusto per il combattimento, ma è forse una delle pochissime cose che ancora mi eccita. Non finirò bene, ma me lo sarò scelto io. Già a meno di dieci anni di età, del resto, ero soffocato dal mio gusto per il tragico. Mi spezzava il fiato, la voce, la vita. Sapevo che per moltissime persone l'esistenza era totalmente diversa da come la vivevo e percepivo io, ma la mia era così e tale rimaneva. E tale è rimasta. L'ho sempre guardata in faccia, come una necessaria sfida. Non mi ritirerò adesso.

                                 Piero Visani