mercoledì 6 settembre 2017

Aosta, 9 settembre 1943

       Ieri nel tardo pomeriggio, assistendo alla proiezione del film Dunkirk, di Christopher Nolan, sono stato molto colpito da un passaggio, nel finale, in cui alcuni giovani soldati appena scampati dal disastro e sbarcati sulle spiagge del Dorset, si interrogano su come saranno accolti dalla popolazione civile e se verrà rinfacciato loro di essere stati dei vigliacchi. E scoprono, con non poca sorpresa, che tutti li acclamano al loro ritorno, come se tornassero da una vittoria, non da una disfatta.
       La mia mente procede sempre per associazioni, per cui, pur ipotizzando che la situazione fosse stata sovrarappresentata dal regista per evidenti finalità filmiche, intese ad accentuare il già marcato contenuto patriottico della sua pellicola, mi è tornato in mente un evento vero, più volte raccontatomi da mio nonno materno, Pietro Rosset, quando ero ancora bambino.
       In quegli anni, fra il 1956 e il 1963, ero solito, finita la scuola, trascorrere il mese di luglio al mare, a Varigotti, in Liguria, mentre il mese di agosto e anche buona parte di quello di settembre (all'epoca si tornava infatti a scuola ai primi di ottobre) lo passavo ad Aosta, nella casa dei miei nonni, da cui quasi ogni giorno si partiva per escursioni un po' in tutta la Valle, da Courmayeur a Verrés.
       Il mio unico divertimento serale, in un'epoca in cui la televisione era ancora relativamente poco diffusa nelle case degli italiani, era ascoltare i racconti di guerra di mio nonno. Lui aveva ben compreso il "terribile amore per la guerra" che mi aveva colto fin da bambino e allora, con grande benevolenza, mi raccontava le sue esperienze nella Grande Guerra, contento che quel suo nipote così strano lo stesse ad ascoltare.
       Arruolato in fanteria (e stranamente non negli Alpini) già nel 1915, era stato preso prigioniero dagli austriaci nel corso della Strafexpedition del maggio-giugno 1916, e da lì trasferito in un campo di prigionia in Ungheria, dove aveva trascorso più di due anni, alle prese con crescenti problemi di sostentamento, dal momento che il blocco navale imposto dalle potenze dell'Intesa a quelle degli Imperi Centrali aveva ridotto le popolazioni civili alla fame. E mio nonno, che non amava gli austriaci, era sempre prodigo di qualche buona parola per la gente ungherese la quale, pure in condizioni di terribili ristrettezze, trovava quasi sempre qualcosa da dare anche ai prigionieri italiani.
       La sera del 9 settembre 1960 (ricordo bene la data), mio nonno variò i suoi racconti e si spostò alla seconda guerra mondiale, a quei terribili giorni del settembre 1943 e alle vicende verminose che sono loro proprie.
       La casa aostana dei miei nonni era situata in stretta prossimità con le principali caserme del capoluogo valdostano e fu così che, già la mattina del 9 settembre, fu oggetto di un'ininterrotta processione di soldati che chiedevano abiti civili in cambio delle loro uniformi, con un'insistenza degna di miglior causa. Animo mite, mio nonno aveva dato qualcosa, qualche abito che non usava più, ma poi era intervenuta mia nonna, il cui valdostanesimo si sposava a una forte componente rigorista elvetica, di matrice credo calvinista, e aveva cominciato ad inveire in francese contro quei "soldati" così insistenti. Molti di loro non credo che avessero compreso il suo francese stretto e sibilante, che per essi poteva essere pure ostrogoto, ma avevano invece pienamente inteso l'invito a sloggiare, visto che comunque qualche capo d'abbigliamento maschile l'avevano rimediato, e se ne erano andati sbuffando.
       Fu in quella occasione che mio nonno, in genere molto chiuso e riservato, si lasciò scappare alcune lacrime. Sorpreso e preoccupato, gli chiesi la ragione di quella forte emozione, nei termini semplici propri di un bambino di dieci anni. Lui mi guardò a lungo, senza riuscire a recuperare neppure il controllo della sua voce; poi, quando ci riuscì, mi disse con voce strozzata: "Ma secondo te, Piero, era un esercito quello, erano soldati, quelli? Non mi sono mai sentito così umiliato in vita mia! E io, a suo tempo, la mia parte l'ho fatta!".
       Per ragioni anagrafiche, non avevo strumenti o conoscenze per interloquire in qualche maniera con lui. Gli dissi solo che no, non mi parevano soldati. E lui aggiunse: "E tutto questo, tutte queste scene vergognose, di fronte a un padre che non sapeva niente di suo figlio Augusto, disperso della 'Folgore' a El Alamein. Si pensava che fosse stato preso prigioniero, ma nessuno di noi sapeva dove fosse e se fosse realmente ancora vivo".
       Un'ondata di vergogna mi colse, fu come una svolta nella mia vita: mi ripromisi - sul momento - che non avrei mai pianto di fronte ad un nipote e che non avrei mai accettato comportamenti come quelli del "tutti a casa!". Del resto all'epoca, privo di conoscenze storiche adeguate, non sapevo e non potevo sapere che l'esempio vergognoso veniva dall'alto, da una monarchia vile e da una classe dirigente cialtrona.
      E ieri sera, pensando all'accoglienza riservata alle truppe britanniche dopo Dunquerque e alle parole di mio nonno, sono stato contento di aver trascorso tanto tempo della mia vita in un Paese dove il "Tutti a casa!" non è mai stato uno sport nazionale, praticato per di più con soddisfazione e senza preoccuparsi dell'accoglienza della gente (in genere più che positiva, del resto...). E ho capito perché, le rare volte in cui ho incontrato qualcuno che tenesse le posizioni, quali che fossero, mi sono sempre sentito solidale con lui, almeno fino al momento in cui ho deciso di non avere più una Patria e un mondo, perché li detestavo entrambi, dal profondo del cuore.

                                 Piero Visani




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